Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: maggio 2014

sabato 31 maggio 2014

Il muro - The Useless

”Quante volte dovrò ancora scontrarmi con me stesso prima di accettare i miei limiti? Quante altre volte dovrò rimanere deluso? Quante energie dovrò ancora spendere in domande che resteranno necessariamente senza una risposta?”

Marco pensava, ed ogni volta era la stessa identica storia, un ciclo infinito di esperienze che lo portavano sempre alla stessa tragica conclusione, ovvero che desiderare ciò che non appartiene alle possibilità dell’essere umano lo avrebbe prima o poi distrutto.

Nonostante questa consapevolezza, Marco ci provava, pur essendo restio, ad aprirsi, a condividere la propria interiorità, a lasciar entrare persone nella sua vita, a fidarsi, a lasciarsi andare, ma ogni volta finiva allo stesso modo, con l’alienazione, la lontananza, il buio.

Di tanto in tanto, Marco trovava anche ragazze a posto, ragazze serie, intelligenti e intuitive, ma non gli bastava, lui desiderava qualcosa che non poteva essere suo, mai!

Un giorno Marco incontrò Cristina, una ragazza stupenda, in ogni sua manifestazione umana, ed appena la loro relazione iniziò a farsi più seria, decise di riprovare nella sua disperata impresa di sentirsi in contatto con qualcuno.

Marco e Cristina passarono ore occhi negli occhi, scambiandosi carezze, comunicando nel silenzio, sussurrando l’uno all’orecchio dell’altra.

”E’ questa la felicità?” si chiedeva Marco, negli ultimi istanti in cui aveva avuto la possibilità di godere di una vastità indescrivibile di sensazioni positive. Marco era sereno, non pensava, non lasciava correre la sua mente nei soliti luoghi oscuri che lo avevano portato all’isolamento emotivo, era sereno.

Lo era, fino a quel tragico, ciclico, annichilente momento.

Inevitabilmente arrivò quell’istante, quello in cui l’effetto quasi oppiaceo della presenza di lei si affievolì e Marco, dopo essere tornato lucido, iniziò a riflettere ed a ripensare ai momenti trascorsi con lei.

Ed eccola arrivare! La solitudine! Quella sensazione di gelo che avvolge, che strozza le parole in gola e le dissolve in una nube di ghiaccio senza mai permettere al suono di propagarsi.

Marco ripensò al momento in cui lui e Cristina si stavano guardando negli occhi e prese nuovamente coscienza di una terribile e immutabile verità: siamo soli. Marco aveva tentato di instaurare un contatto profondo con Cristina, ma il contatto umano è di per sé, strutturalmente fallimentare.

Si accorse di aver sentito una precisa sensazione, come se il suo essere, nel tentativo di espandersi e di inghiottire Cristina, si fosse bloccato, strozzato, incastrato all’interno del confine corporeo, proprio in mezzo al petto, tra la cassa toracica e la pelle.

E Marco si era sentito proprio così, soffocato, immerso nel fango del materialismo, costretto a tenere dentro di sé tutto l’amore che sarebbe stato in grado di trasmettere a Cristina, se solo vi fosse stato un anello di congiunzione tra le loro anime.

Marco fu come gettato nuovamente a terra e incatenato, imprigionato in una realtà che non gli apparteneva, che non lo soddisfava, costretto ad un sentire mai condiviso, che lascia in bocca un retrogusto amaro quasi insopportabile.

”Siamo galeotti, reclusi in noi stessi, siamo come prigionieri della nostra stessa limitatezza, schiavi della nostra forma umana, destinati ad intravedere la luce da dietro le sbarre di una piccola finestra, senza mai potercene fare avvolgere.” Pensava Marco tra sé e sé mentre strappava via quel poco di unghia che gli restava sull’indice sinistro.

”Come può vivere chi non accetta questi limiti? Sopravvive. Tutti sopravvivono, la differenza sta solo nello sforzo che questo andare avanti richiede ad ognuno di noi, e che a me richiede una tal fatica che mi sento fisicamente consumato.” disse a sé stesso ad alta voce mentre si gettava sul letto, stremato dal troppo pensare.

Marco non lo accettava, si trovava in balìa di sentimenti che solo lui poteva sentire e non era in grado di raccontare né a parole, né con lo sguardo, né con qualsiasi altro mezzo esistente o pensabile.

Si sentiva quasi circondato, accerchiato da potenziali pericoli, gettato a capofitto in un universo in cui fiducia non era una cosa neanche lontanamente pensabile, proprio per la sua incapacità conoscitiva, che gli impediva, come impedisce a tutti, di scrutare nell’animo profondo delle altre persone per sapere davvero chi esse siano.

Questo suo modo di vivere le cose procurava dei corti circuiti comunicativi con Cristina, la quale sembrava non rendersi conto di quanto egli fosse tormentato, nonostante i timidi ed incerti tentativi di farglielo capire.

Marco amava Cristina e si sentiva con lei come non si era sentito per moltissimo tempo, ma temeva che questo muro fatto di carne, sangue ed ossa li avrebbe, un giorno, allontanati.

Ma da chi, questo muro corporeo, non lo avrebbe allontanato?

Fu quella, la solita domanda, quella fatidica e gelida domanda che gli faceva sempre sentire la necessità di fuggire, di raccogliere le sue cose e raggiungere il luogo più solitario e sperduto della crosta terrestre.

Marco era spaventato, da una parte non voleva fare del male a Cristina con il suo umore precario e altalenante, dall’altra non voleva più farsi male, non voleva più delusioni, non voleva altro dolore.

Così Marco decise di lasciare che Cristina potesse cambiare strada, lontano da lui, voleva che lei imboccasse una strada sicuramente meno tortuosa e faticosa della sua.

La sentì suonare alla porta di casa. Scese.

”Cristina io…” Marco la guardò negli occhi e si fermò. Cristina gli stava sorridendo. Le parole gli si strozzarono in gola e sentì come se la terra sotto ai piedi si stesse dissolvendo.

Lui non era solo, quando era con lei, e forse, per un sorriso come quello, valeva la pena rischiare.


#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori


Sono torre squadrata e solida nell'emergenza. 
Ed inutile muro diroccato nell'attesa.

Sole - Neriene

Sole,
lascia che la luna
regni per sempre
così che questa notte
diventi eterna.
Arrossiscono le stelle
nel vederci insieme,
la mente smette di crederti
e inizia a farlo il cuore
grazie a te
ho imparato
che basta un istante
per toccare l’infinito
ho imparato
che è un soffio
a far volare il pensiero
sorridi
e io vedrò l’amore.

Il rito - Terzoquartodiluna

Prossima ormai a posizionarsi nel centro esatto del cielo, la luna oltrepassò lo stipite superiore della persiana, sottraendo così la stanza dal suo cristallino bagliore. Adonide lanciò un’occhiata oltre il vetro opaco, continuando a sfogliare distratta il libro posato sulle sue ginocchia. Era giunto il momento. Sospirò malinconica al pendolo. Di lì a poco, sarebbe scoccata la mezzanotte. Non serviva controllare l’ora per saperlo. Richiuse la spessa copertina di cuoio consunto, avvolgendola con cura in tre giri di nastro vermiglio. Poi, quasi per infondere coraggio al proprio animo sparuto, strinse sul petto il massiccio volume e si alzò di scatto. Noncurante dello scialle di lana cadutole ai piedi, attraversò la stanza e raggiunse la finestra, la fronte premuta sul vetro, gli occhi rivolti alle stelle. Lei era là, la pallida Selene, unica amica foriera di conforto, nelle notti torride di desideri inespressi. Doveva affrettarsi. Poco era il tempo di cui disponeva. Se si fosse attardata, avrebbe perso l’unica occasione di porre fine al supplizio, di rimediare a tutto il male causato. Senza distogliere lo sguardo dal cielo, abbandonò la presa sul libro. Lo udì compiaciuta scivolare nell’aria, per posarsi docile sopra la seta del tappeto. Allora, animata dalla premura di compiere l’arcano proposito, raggiunse a passi rapidi la porta e imboccò le scale. Attraversò i corridoi del primo piano avvolta dalla penombra, eterea e impalpabile come una divinità ctonia. Indifferente ai crepitii sinistri dell’antico mobilio, avanzò sinuosa fino all’ingresso, mentre la sua mente sospesa ripeteva in un mantra le parole del rito. Gemiti soffocati sibilavano dalle stanze deserte, stridendo nell’aria come le note di un violino scordato. Serrò i denti. Non avrebbe prestato orecchio alle rimostranze dei Lari. Ormai aveva deciso. La notte era giusta. Avrebbe liberato la casa e con essa lo spirito costretto dal suo infame sopruso. Assecondare il proprio desiderio non era più motivo di gioia. Certo, le era servito del tempo per capirlo. Tre volte il Sole aveva attraversato le dodici costellazioni, prima che lei potesse maturare il saggio proposito. Ma ora tutto le era chiaro. Se solo avesse socchiuso le palpebre, senza sforzo avrebbe potuto scorgere i piatti della bilancia pendere irrimediabili verso al baratro in cui era discesa. Da una parte, il lieve conforto della presenza a lei cara. Dall’altra, il triste destino a cui aveva dannato il suo amante. Il limbo eterno. Tante volte, sdraiata nell’erba, selvaggia tra gli alberi, aveva contemplato la rugiada stillante sugli aghi di pino. Dense gocce pesanti erano le lacrime prodotte dal suo sortilegio. Ma ora comprendeva quanto il suo desiderio fosse frutto di un animo indegno. Ora conosceva l’unico rimedio: sciogliere il lacci che trattenevano l’uomo nella sua vivida casa. Scacciati dalla mente i tristi pensieri, fece scivolare la veste di mussolina sulla pelle bianca e nuda varcò la soglia. Sollevò la fronte alla luna. Quella era la notte giusta. S’inginocchio tra i fili del giardino umidi di notte, protetta dalle rosee fronde dell’acero. In quel modo, gli sguardi indiscreti dei rapaci notturni non avrebbero interrotto l’intensa preghiera. Prese a sviluppare un fagotto poco ingombrante, sul terreno morbido di muschio, gli occhi già umidi di commozione. Uno. Un brivido ascendente come una carezza audace percorse la sua pelle di porcellana, mentre, puntellando le nocche nell’humus, si alzava da terra. Percorse un giro intero intorno all’arbusto, sfiorando il suolo con la punta del dito, il sale in qualità di sigillo, una litania per invocare soccorso. Era necessario curare ogni dettaglio, per ottenere il risultato sperato. Per questa ragione aveva portato con sé due candele. Rossa come la passione, nera come il suo animo. Si fermò in mezzo al circolo e giunse le mani al petto. Raccolse le energie necessarie, domandandosi intanto se non fosse la sua volontà a rischiar di venir meno. Due. Gli occhi fissi nel vuoto, prese a mormorare parole al vento, così da interpellare gli spiriti benevoli. Una fitta nel cuore, poi, la vista annebbiata. Era la paura a causarle dolore: una volta pronunciato l’incanto, non ci sarebbe più stato spazio per i ripensamenti. Lui se ne sarebbe andato. Liberato dal giogo, sarebbe fuggito alle stelle e non sarebbe tornato mai più. Immaginò la sua casa divenuta silenziosa. Le finestre spalancate ai crepuscoli estivi, le lenzuola composte sul letto. Nessun sospiro, nessuna malia. Le notti sarebbero state semplici notti, il sonno, confortevole oblio. Tornò con la mente ai sussulti improvvisi. Il volto amato impercettibile nel sogno, il tocco della sua mano leggero come un battito d’ali. A questo stava rinunciando. All’amore potente che l’aveva piegata, al sentimento più forte che un cuore fosse in grado di contenere. Maledisse rabbiosa l’indole docile che non credeva di avere, poi, stretto il cartiglio tra le dita, prese a recitare il rituale. Attese in silenzio. Non passò molto tempo prima che una brezza effimera s’insinuasse nel lucido corvino dei suoi capelli. La percepì vorticare sulla fronte, per poi scivolare fino alle caviglie. Soggiogata, mosse un passo nel buio e l’alito di vento si condensò in un’ombra dai contorni imprecisi. Cadde sulle proprie ginocchia. Lui era lì, una nebulosa fluttuante di pallido vigore. Lo scrutò baluginare nell’ombra e si augurò che potesse comprendere l’onestà del suo gesto. Protese una mano verso di lui. Rapita, perlustrò la sua materia sottile, labile effige delle notti d’amore. Quello era il momento. Il momento giusto per liberarlo dal vincolo imposto. Doveva lasciarlo andare. Doveva permettergli di compiere il corso e raggiungere infine l’equo riposo. Così accadeva per tutti, così sarebbe stato anche per lui. Nonostante l’amore, nonostante lo strazio al pensiero di non averlo mai più. In cerca di coraggio, puntò gli occhi al terreno e sgretolò una zolla nel pugno. Tre. Magnifica creatura inconsapevole del proprio cuore, Adonide slanciò le braccia bianche al cielo, il viso contratto nello sforzo. Come una novella Erinni, gridò rivolgendosi al Cosmo, sperando di essere udita. Lo vide danzare in una fiaccola incerta, per poi crepitare in un rogo abbagliante. Seguì il percorso della sua forma sottile, mentre, indirizzato dalle parole, solcava lo spazio e raggiungeva il firmamento. Tutto era compiuto. Morse una mela per chiudere il cerchio, la speranza di poter ricordare come unico conforto. Decise di non accostare le imposte, quella sera. Immobile sotto le lenzuola, abbassò le palpebre e pregò che l’oblio sopraggiungesse veloce. Presto i sogni la presero per mano. Annebbiarono la sua mente, sbiadirono i ricordi. Fu il verso di uno stornello a cullare il suo sonno. Nascosto tra i rami, il piccolo uccello dalle piume screziate cinguettò tutta la notte parole d’amore. Cantò per la povera Adonide, donna infelice dal nome di fiore.

Dalla rubrica “Magagne ai piani alti”, il Giornalista di Gossip del Ducato (03) - Sciur Bis

LA BARONESSINA FULMINATA SULLA VIA DI MARIA GORETTI




Cari lettori, oggi una nuova chicca, a proposito delle 3 nobili, tocca alla Baronessina.

Questa volta per la notizia, me la sono cavata con 10 euro alla servitù. Basta poco come vedete, in effetti dato che non prendono gli stipendi da tempo immemorabile, è sufficiente gettargli qualche spicciolo che aprono la bocca e non smettono più. Il mio lavoro, non è mai stato così facile, come da quando sono nel Ducato.

Comunque, pare, che la Baronessina sia stata folgorata sulla via di Maria Goretti, cioè non la dà più.

Né ha fatto le spese il Piccolo Lord, che dopo mesi di corteggiamento serrato e una cena romantica al ristorante “Pizza e Fichi”, ha accompagnato la giovin Signora sotto al palazzo con la sua carrozza.

Appena ha tentato di saltarle sulle piume, la Baronessa ha reagito inviperita: “Come vi permettete Lord, sono una giovane per bene e poi pratico una nuova dottrina spirituale!.”

“E quale, di Grazia?” ha risposto piuttosto innervosito il Lord.

“Sventolarla, ma non darla!.”

“Ma allora è vero che siete Cretina!”

Povero Conte, preso dall’ormone impazzito (pare che la Baronessa faccia questo effetto sugli uomini), ha tentato una seconda volta di saltarle addosso e ne ha fatto le spese la sua testa, elegantemente tagliata dal boia di corte, andata poi a concimare le rose del giardino.

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Tutto è iniziato una sera, alla visione del film sulla Santa (Goretti appunto), nel salottino privato della Duchessa, alla presenza di sua Luminosità e della Marchesa.

Alla fine della visione la Duchessa ha proferito “Film ispirato!”.

La Marchesa, che su certi argomenti è conosciuta per essere piuttosto “Generosa”, ha detto: “Non capisco perché non l’ha data, avrebbe salvato la vita e magari le sarebbe pure piaciuto, anzi se la mia esperienza è servita a qualcosa, ne sono certa!”.

La Baronessina non proferì parola per alcuni minuti, ma aveva uno sguardo spiritato che faceva paura.

Poi: “ora ho capito! Da oggi, solo tacchi e ciglia finte, ma niente sesso, devo preservare il mio onore fino al matrimonio!”.

“Si, campa cavallo e poi l’hai più usata di una Punto di terza mano, visto che ti sei spadellata tutti gli stallieri di corte!”

“Vecchia Babbiona, sei proprio una..”

“Baronessina non dire parolacce, qui non usa e tu Marchesa non essere così cinica, rispetta il volere della giovine, le fà onore e poi fa bene all’immagine del Ducato.”

“Appunto e poi per il mio onore, provvederò subito ad un’ intervento di Rivergination, Duchessa, Vostra Luminosità, dove è il SuperAttack?!”

“Nel terzo cassetto del comò cara.”

E così iniziò il periodo di Gorettismo della Baronessa. Quanto durerà, non è dato saperlo, è certo però che la faccenda, ha avuto un’ effetto imprevisto sulle giovani del regno.

Essendo la Baronessina un punto di riferimento per loro, sia in termini di moda, trucco e parrucco che di stile di vita, le giovani del Ducato non la danno più. I giovani maschi stanno esplodendo e passano le serate a prendere a testate le mura del palazzo, in segno di protesta. Molti hanno cominciato a saltarsi sulle piume tra di loro e l’indice di natalità nel regno, è precipitato ai minimi termini.

Voci non confermate, dicono che la Duchessa, inizialmente favorevole all’iniziativa, visti i drammatici sviluppi, stia pensando di emanare un editto per obbligare la Baronessa a ricominciare a darla e conoscendola, siamo certi che ci riuscirà. Nel frattempo riflettiamo su come la sopravvivenza di uno stato possa essere compromessa dalle ideone di una cerebrolesa.

Alla prossima.

Sciur Bis.

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giovedì 29 maggio 2014

La bandiera sul pennone - Adelaide J. Pellitteri

La battaglia risvegliò coscienze assopite, produsse un succo dolce e liquoroso, il sangue sembrava fremere e anche gli spiriti più quieti o votati per natura al disincanto esultarono. Uccelli liberati dalle gabbie.
Boati, squilli di trombe, nuovi e improvvisati sbandieratori percorsero per giorni e notti tutte le città e dal sud al nord non v’era pennone, asta, finestra o balconata senza il tricolore. 
Il vento leggero e caldo sembrava rendere omaggio ai teli nuovi e immacolati così come a quelli sudici, innalzati innanzi tempo a propiziare la vittoria.
Il mese di luglio era un buon mese per vincere. Infondo la logorante battaglia, per noi iniziata il 14 di giugno, non poteva deludere chi ci aveva messo il cuore, la forza, la determinazione e magari i soldi puntando pure sopra la fortuna.
Era importante ritrovarsi “popolo” unito e compatto. Era eccitante ritrovarsi unica entità! Sentire il suono originale della nostra lingua, l’orgoglio che ci compattava in blocchi solidali e invincibili tra le piazze madrilene, sivigliane…
Tutti i giorni il tam-tam «Questa sera ci riuniamo da me!» … «Per la prossima si offre il Giando!» … «Se tutto va bene dopo si va da Pino, lì c’è spazio per tutti» perché era un crescendo di emozioni e anche di amici. 
Indispensabile stare uniti per attraversare i Pirenei. Lo si fece a bordo di treni, di pullman, vetture private. Sfondammo pure il cielo attraversando le rotti celesti perché gli squadroni agguerriti sostenessero i Nostri! 
Il grido di ognuno era il grido di tutti. Nessuna resa né altra alternativa. 
Una battaglia mondiale! 
Noi contro ventiquattro Nazioni. Alcune ci vennero meno, eliminati dai nostri stessi nemici; altri li affrontammo a viso aperto, con il nostro Presidente che, alzando il pugno, incitava alla vittoria. 
Dove non si poteva arrivare con i mezzi o i propri piedi si arrivava con gli inni, con il fervore, con i riti propiziatori. 
Così fecero tutti coloro che erano rimasti in patria.
Uomini, donne, finanche bambini bardati come guerrieri Tartari o con le facce dipinte emulando gli Apache. 
Tutti sedevamo in cerchio davanti alla luce bluastra, ansiosi di assistere all’avanzata. Gli occhi commossi fino alle lacrime, i petti gonfi, l’intelletto all’erta pronto a coniare nuovi inni per i nuovi eroi. 
Un solo coro sotto una sola bandiera!
Giunse la notte dei miracoli! 
Al Santiago Bernabéu l’ultimo scontro e chi raggiunse il campo per quell’ultima battaglia lo fece con il metrò, linea 10, omonima fermata. 
Zof, Tardelli, Pablito e Pertini, notte prodigiosa quella dell’11 luglio dell’82! 
Non la troveremo sui libri di storia, ma noi Italiani la ricorderemo per tutti gli anni a venire. 
Un intero popolo catapultato indietro nel tempo, a quel lontano 1847 quando la Banda della Domenica, squadrone di rivoltosi capitanato da Enrico Bartelloni (detto il gatto) cantava a squarcia gola: «E la bandie-e-e-ra di tre colo-o-o-ri / è sempre stata la più bella! / Noi vogliamo sempre quella, / noi vogliam la libertà! / La libertà, la libertàaaa!». (ɪ)
Avevamo vinto e tutti, in coro, cantammo l’inno alla bandiera!

(ɪ)Fonte: Un cappello pieno di ciliege di Oriana Fallaci

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Haiku di Mr.BornTweetty

Solo il tempo 
di sentir lo schianto del 
cuor in frantumi.

Pensiero da Twitter di Luciano

Un volo...un pensiero...veloci passaggi nella mente possono rendere piacevole il nostro viso.. 

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#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori


Con queste graffette terrò a freno le mie paure.
O forse ci rimarrò impigliata...

mercoledì 28 maggio 2014

Poesia da Twitter di Sergio Ferrari

Corri poesia vento dell'anima,ferma i miei pensieri blocca i miei ricordi,regalami la fantasia.

Poesia da Twitter di Andrea Libero Liberi

Quel vuoto dentro, amica mia, non è dato da qualcuno che manca, ma dal tuo modo di essere che non riesce a amare.

Poesia da Twitter di Chiara Spinillo

Separati. 
Ma uniti. 
Inevitabilmente. Irreparabilmente. 
Perché la vita cambia 
e ci cambia. 
Ma certi Amori restano.

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#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori

In memoria di ANDY fotoreporter:"I suoi occhi fieri e tristi. Di chi sa"

Tango e Cenere - Enrico Vergoni

Dimmi quando è finito
l ‘amore che avevi per me
dimmi il giorno,l’ora e perchè,
e chissà dov’ero che non me ne sono accorto.

Ti ho sollevato come una figlia 
come un vecchio gli occhi al cielo,
ho danzato nella tua mente
tango e cenere
cuore e sudore.

Ogni attimo era il tempo di una vita
ogni lampo la sua tempesta,
il mare sbatteva sotto la tua finestra
forte
come la vita che ti batte dentro.

Lacrime cadevano senza voce
come una vedova
come Maria sotto la croce.
Guardo l’infinito 
come un buon gatto in riva al mare.

Me ne sto a presidiare la solitudine
come un fiore,
che importa se davanti ad una tomba o nei pressi di una scuola?
Oggi sono vivo ,mangio sale e bevo mare
tanto non può esistere l’inferno
in un mondo così pieno di Dio...

martedì 27 maggio 2014

Poesia di Simone Giordano (Estratto)

Paura e piaceri nel bersaglio, 
tutti scelti i malcapitati. 
La falce mira al germoglio 
al fuoco quei fiori saran destinati.

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Poesia Italiana: La polizia può sparare - Lorenzomonfreg

E poi uno deve leggere una roba del genere: 
“””Un’indagine letteraria sulla poesia contemporanea dovrebbe utilizzare, come in un’indagine poliziesca, un paradigma indiziario; ciò consentirebbe di sottoporre i poeti a delle vere e proprie inchieste e, conseguentemente, di trattare i loro testi (le poesie) come verbali d’interrogatorio.”””
(fonte: cerca su google se ci tieni)
Ora, uno legge questa cosa. E un po’ il conatus gli viene. Perché, al di là del contesto e al di là delle intenzioni certamente nobilissime, salta fuori una sola considerazione istintiva:

“Poesia” con accanto, nell’ordine:

“Indagine poliziesca” + “Verbale” + “Interrogatorio” …

Beh, ce n’era proprio bisogno. Ora la sola cosa che manca è mandare le cartelle esattoriali a chi non rispetta la metrica.

Perché leggendo quanto sopra, o siamo di fronte all’apertura di un saggio su Kafka, o a un nuovo potenziale segno di una:

Cultura già affondata da un Clero Mummificato di Burocrati, Cerimonieri e Sbirri.

Intendiamoci. Sono più che sicuro che esistano dei poliziotti poeti. E di certo neanche loro si sognerebbero di fare uninterrogatorio alle parole.

No, roba del genere è proprio materia culturale che sbuca fuori senza neanche volere, con innocenza assoluta, come i colpi di coda di un Classe Sacerdotale a cui è rimasto solo il sogno di sbattere in cella qualcuno che scrive senza omaggiare la conservazione, fosse pure la conservazione di una certa idea conveniente di Rivoluzione.

La conservazione.

Non della Poesia, ma della sua Polizia.

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Te e me - Marilena Valenti

Di cosa vuoi che ci si stupisca?

Dei tempi morti che non scuotono
la cenere via dalla giacca sgualcita
della ferita che non si chiude se la gratti
dei ricatti che solo la fortuna non accetta

nessuno più si disturba

e dell’errore non rimane neanche più una virgola
solo un’ e arrendevole
a congiungersi a te

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None_0: di hakeraggio e gemelle omoziGotiche - Luca Della Casa

Eric era ancora vergine, ovviamente.
«Hai mai avuto a che fare con una sorca vera?»
«Oh no, no… mi piacerebbe però, eh, eh.» Guardava il soffitto, ciondolando lievemente sulla sedia, senza smettere di schiacciare i tasti.
«Parigi è piena di belle gnocche che non vedono l’ora di metterti le mani addosso, lo sai? Ma già, come fai a saperlo… tu non esci mai.»



Avevo conosciuto Eric –era questo il suo vero nome–, una decina d’anni prima a Parigi. Le cose nelle agenzie non andavano particolarmente bene in Spagna, così mi ero deciso a cercar fortuna dai vicini. In realtà anche nella gran capitale non c’era troppo da fare. L’editoria e la carta stampata erano in caduta libera sicché non mi restava altro che tentare di riciclarmi nella Rete, cosa non facile, comportava assimilare un mucchio d’informazioni completamente nuove. Passavo il tempo scaricando tutorial inutili e frequentando corsi inconcludenti; sembrava che i miei sforzi non approdassero a nulla. Avevo bisogno di nozioni pratiche e non sterili teorie. Quando ormai cominciavo a disperare, trovai un corso on line di Eric che insegnava a montare da zero un sito dinamico con database e Php. L’amico utilizzava un metodo d’insegnamento semplice ed efficace –“a prova di deficiente”, come diceva lui– che in meno di due settimane mi fece assimilare tutto ciò che non avevo appreso nei mesi precedenti. Eric conosceva e diffondeva insegnamenti su ogni tipo di linguaggio. Mi sciroppai parecchi dei suoi tutorial e ciò mi permise di trovare qualche nuovo cliente. Si poteva chiacchierare con lui attraverso il chat del Blog; era un tipo disponibile e divertente.
«Che genere ascolti Eric?»
«Brit Pop, Electro, IDM…»
«Vuoi che ti mandi qualcosa di buono?»
«Come no… stupiscimi!»
Lo inondai di musica, gli piaceva ciò che gli mandavo, soprattutto i vecchi gruppi degli anni ’70 e ’80 che non conosceva affatto.
«L’altro giorno ho montato un’app in Java, ascoltando i Kraftwerk.» Ammise. «Le mani volavano da sole sui tasti.»
Scoprii che anche viveva a Parigi e un giorno gli proposi di vederci. «Lascia che ti offra qualche birra. È il minimo.»
«Mai bevuto birra, ad ogni modo, non si servono alcolici ai minorenni.»
«Scusa, ma quanti anni hai?»
«17 :)»
«Ah!»
«E tu?»
«36.»
«Caspita! Dev’essere duro per te assimilare queste cose alla tua età.»
«Il problema non è imparare ma ricordare.» Confessai.
«Già!»
«Beh, se vuoi possiamo farci una Pepsi.» Continuai.
«Io vivo qui.» Rispose Eric dopo una pausa.
Si aprì l’immagine della Sixieme, una bella zona, non lontano dal centro di Parigi.
«Ci troviamo in qualche Bar dalle tue parti?»
«No, niente Bar, questa è casa mia.» Sul monitor apparve la foto dello stabile, con i dati della via e il numero.
«Così tu saresti l’alunno di mio figlio.» Disse la madre di None_0, versando il te. «Beh, non è mai troppo tardi per imparare.»
«E dai, mamma, cazzo dici?» Protestò Eric. Era un tipo piuttosto timido e introverso, ben differente da come l’avevo immaginato, seguendo i suoi tutorial o chiacchierando nel chat. Porse la mano moscia, con un mezzo sorriso, senza quasi guardarmi in faccia; si era poi andato ad appollaiare in fondo al tavolo, senza mai alzare lo sguardo dal pavimento. Non controllava troppo bene il movimento del braccio sinistro: la mano sfarfallava, sempre più rapida, mentre la madre parlava di lui. Eric, sebbene non fosse basso di statura, era molto magro, piuttosto pallido, coi capelli castani e occhi irrequieti dello stesso colore; aveva un naso appuntito e simpatico che lo faceva assomigliare a una faina, si vestiva in modo semplice e informale come se il look non fosse una cosa che importasse.
«Manuel non ha l’aria d’essersi offeso.» Continuò la madre.
Scossi la testa. «Non sono più un ragazzino, è la verità.» Aggiunsi.
«Sono contenta che tu sia venuto a trovarlo, è sempre solo, in casa, sempre attaccato al Pc; quello è il suo mondo, non il nostro.»

La madre mi raccontò la storia di Eric, nonostante le sue proteste. Il figlio era un bambino prodigio che con 17 anni era già ingegnere informatico; un titolo che aveva dovuto prendere on-line perchè non riusciva a frequentare i corsi di persona. Cose semplici come uscire di casa, prendere il metrò e stare in classe, erano per lui degli ostacoli; il contatto con la gente lo frastornava. «I medici hanno parlato di disturbi del comportamento, sindromi… di Tourette, Aspenger e non so che altro, ma la realtà è che gli specialisti non ne sanno nulla. Mio figlio è mio figlio! Ha la sindrome di Eric… non è fatto per il mondo, e questo è tutto.»

«Mamma, per favore, smettila adesso!»
«La morte di suo padre è stato un gran colpo per lui.»
Il vecchio era morto qualche anno prima; per fortuna aveva lasciato una bella casa grande e una pensione alla vedova.
«Uff, Dio mio, che pesantezza. Vieni, Manu, ti faccio vedere dove lavora il mitico 1manBand.» La stanza di Eric ricordava il laboratorio di uno scienziato pazzo, sulle pareti c’erano delle belle riproduzioni di bonazze cyber punk, foto di città, strutture e macchine avveniristiche. Accese lo stereo: “This Hollywood Life” tuonò attraverso le enormi casse Bose. «Ti piacciono gli Suede?»
«Non sono il mio genere, però questa canzone non è male.» Risposi.
«Sei estremo tu. Eh, eh.» Osservò, ridacchiando alla Forrest Gump.
Il tavolo era letteralmente ricoperto di componenti, tablet e cellulari. Aveva un Mac e un Pc scoperchiati. Li accese entrambi.
«Che sistema usi?» M’informai.
«None_0.0.8»
Scossi la testa.
«È roba mia, basata su Unix.»
«Cazzo! sono tutti numeri e simboli… ma chi accidenti ci capisce?»
«Gli iniziati, eh, eh, tra i quali un giorno ci sarai anche tu.» Vicino alla torre del Pc c’era un grosso ventilatore. «Sto provando degli acceleratori e a volte il processore si surriscalda. Eh, eh.» Ridacchiò di nuovo.

«Io non ci capisco nulla di ‘sto linguaggio.» Protestai guardando sconcertato ciò che appariva sul monitor.
«Perchè sei abituato all’interfaccia. Mano a mano che imparerai ti renderai conto che gli interpreti grafici non servono a granché, solo a rallentare il computer, proprio come nell’esistenza; la conoscenza di ciò che conta va oltre la realtà apparente delle cose.»

Lo guardai a bocca aperta. «E come faccio a imparare, ammesso che ne sia in grado.»
«T’insegno io… se hai voglia.» Eric compilava mentre parlava, non guardava me o lo schermo ma un punto indefinito a lato della tastiera, digitando a velocità folle, in un attimo creò un attraente interfaccia grafico apposta per me. «Prima lezione.» Annunciò. «Dell’irrinunciabile divertimento di programmare in C++»
Passai i mesi seguenti studiando ciò che m’insegnava, andavo a trovarlo spesso, per la felicità di mammá. Le mie visite non dispiacevano neanche a lui, non si sentiva troppo a disagio quando c’ero io e la sua mano cessava di sfarfallare, o quasi. Eric si dimostrò entusiasta quando venne a sapere delle mie scorribande con i Black Blocks, ascoltava elettrizzato i racconti degli scontri con la polizia alle manifestazioni contro il G20. «Dopo i casini di Genova non mi lasciano più entrare nelle nazioni che ospitano i summit. Sono schedato ormai.» Ammisi.
«Wow, che forte!» Esclamò.
Un giorno Eric mi presentò a una decina d’amichetti in videoconferenza, i collegamenti provenivano da differenti parti del pianeta: Germania, America, Giappone, Australia… «Ci furono commenti non troppo simpatici nei miei confronti: «Mi sa che è un po’ passato per imparare…» Rilevò una tizia di Sidney.
“Non ha proprio l’aria di essere un fulmine.» L’appoggiò lo stronzo di Chicago. «Sicuro che mio nonno con l’Alzaimer, gli dà la birra.»
«Ma ci si può fidare?» Insinuò il giapponese.
«Dai, ma l’hai visto bene? Non ha l’aria d’essere uno sbirro.» Contestò il tedesco. «None_0 ha detto che era dei Black Blocks.»
«Manuel possiede una dote molto speciale.» Tagliò corto Eric. «Ha un sesto senso per scoprire informazioni. Dategli cento porte e lui vi dirà qual è quella giusta d’aprire.»
Non avevo mai capito per quale ragione None_0 fosse sicuro della mia facoltà di “sentire la Rete”, come diceva lui però col tempo mi resi conto che non aveva torto; le mie intuizioni a volte sembravano prodigiose. Fatto sta che insieme alla programmazione cercò d’insegnarmi “l’hakeraggio”, come lo chiamava; con grandi sforzi da parte di entrambi, per via della mia difficoltà a ritenere le nozioni.

«Per quale ragione si perfora?» Gli domandai.
«Soprattutto perchè è divertente però, ora come ora, perchè è indispensabile. Il Grande Fratello è stato creato per controllare la gente non per proteggerla, noi lo dimostriamo perforando i sistemi di difesa, le centrali d’energia, le banche, i ministeri… non si tratta di rubare o di provocare danni; solo provare quanto siano indifesi di fronte a dei reali attacchi cyber.» Eric era convinto che la società umana fosse sull’orlo del baratro però lui, a differenza di me, aveva ancora qualche speranza.

Oltre all’Hakeraggio e alla musica, anche la passera l’appassionava particolarmente. Tra una lezione e l’altra, mostrava la sua raccolta di “belle gnocche” scaricate dalla rete. Aveva dei buoni gusti, a dire il vero, le tipe dovevano essere proprio interessanti per fare parte della collezione. «Guarda questa, è nera ma ha la micetta tutta rosa, eh, eh!» Osservava, ridacchiando. «Quest’altra è la Duchamp, la regina del Latex, visto che razza di meloni?»
Eric era ancora vergine, ovviamente.
«Hai mai avuto a che fare con una sorca vera?»
«Oh no, no… mi piacerebbe però, eh, eh.» Guardava il soffitto, ciondolando lievemente sulla sedia, senza smettere di schiacciare i tasti.
«Parigi è piena di belle gnocche che non vedono l’ora di metterti le mani addosso, lo sai? Ma già, come fai a saperlo… tu non esci mai.» Eric si era preparato un angolino con bicicletta statica, manubri e banco per gli addominali. Si teneva in forma a modo suo. Aveva una lampada UV, così non era obbligato a uscire troppo spesso a prendere il sole. «Hai presente 2001 Odissea nello spazio?» Diceva. «Gli astronauti che andranno su Marte vivranno proprio come me.»
«Non andremo mai su Marte.» Lo stuzzicavo.
«Sì, invece, vedrai che ci andremo.» Assicurava lui indispettito.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno sua madre ed io lo convincemmo a lasciare l’astronave. Me lo portai a fare un giretto nei locali e negozi nel quartiere della Bastille. Era una bella giornata di primavera, si celebrava la festa della musica: chiunque avesse voluto avrebbe potuto suonare per le strade, nei locali e nelle piazze. C’era un mucchio di gente allegra, vestita in modo piuttosto strano; tutti si sforzavano di apparire felici “Le Jour de la musique.” Eric, all’inizio, sembrava seriamente angustiato e ripeteva, come un disco rotto, sempre la stessa cosa: «Quando torniamo a casa?»
In seguito, le strade si animarono tanto da non riuscire quasi più a camminare. C’infilammo nel “Petit agité”: un gran Disco Pub dove c’era musica che piaceva a noi, Eric finalmente si calmò un poco, gli feci bere la prima birra della sua vita; parve gradire l’effetto ma non il sapore. «Sembra piscio congelato. Eh, eh.» Rilevò con la testa inclinata, guardando per terra.
«Dì, Eric, hai visto quante belle leprotte ci sono in giro?»
«Si, si! Ce n’è un mucchio. Eh, eh.» Confermò lui spiando di sottecchi. «Punk e gotiche, con capelli da spaventapasseri, la mini e le calze rotte… me lo fanno rizzare.» Ammise.
«Vuoi ancora andare a casa?»
«Mah, forse è meglio se restiamo un po’.» Bevve ancora un sorso dalla birra. Agitò lievemente la testa a suon di musica.

Infine arrivarono le “gemelline omozigotiche”, come le avevano soprannominate nell’ambiente. Loro sì che erano creative in quanto a look. Quella sera si presentavano con lunghi capelli tinti di nero tirati all’indietro, con meches verdi e porpora, tenuti con fermagli a forma di teschio e foulard di trine. Erano accuratamente rasate a zero quattro dita sopra le tempie, alcune treccine fini si agitavano, come se avessero vita propria, ciondolando davanti alla faccia. Fondotinta candido, pesante trucco gotico, innumerevoli piercing, anelli e orecchini, adornavano i bei visetti da bambole di porcellana. Lenti a contatto fluorescenti conferivano al loro sguardo un inquietante tocco psicotico. Erano minute, sul metro e settanta, ma talmente carine… non mi sarei mai stancato di guardarle e di averle attorno. Per l’occasione indossavano camicette dei NIN e giacche di vinile in stile cyber, con innumerevoli cerniere, badges e borchie. Le calze a rete con maglie fini indossate sui collant smagliati e gli immancabili anfibi, completavano la mise rigorosamente nera.
Si erano accostate a noi, vicino al bancone. Eric le sbirciava sorridendo.
«È il fratellino minore che hai portato dalla Spagna?» S’informò Chantal.
«No, è un amico.» Risposi.
«Carino.» Osservò Anais, gli si avvicinò e prese ad esaminarlo minuziosamente, Eric rimase a testa bassa, le attenzioni della gemella lo innervosivano e il braccio sfarfallava fuori controllo.
«Cosa fai con la mano?» Domandò lei, candidamente.
«Niente, è un tic nervoso.»
«Caspita, potrebbe servire per suonare la chitarra?»
«Magari a fare slapping sul basso, non so… eh, eh.»
Le gemelle fecero qualche giro nel locale, senza smettere di confabulare e guardare dalla nostra parte. Infine decisero di restare definitivamente a farci compagnia. «C’è sempre la solita gente in giro.» Si lamentò Chantal.

«Carino, simpatico e un po’ spastico, il tuo amichetto comincia ad appassionarmi.» Fece sapere Anais, dopo essersi ammazzata di risa con lui tutta la serata.
«Eric è un tipo geniale, vale la pena conoscerlo.» Confermai.
«Scopa?»
«Bisogna ancora inaugurarlo! Oggi compie diciotto anni… quale occasione migliore?!»
«Ma va, giura!» Esclamò Anais, sorridendo da un orecchio all’altro.

«Parola di Boy scout.»
«Voilà, e adesso chi la ferma più quella maniaca di mia sorella? Sarà già bagnata solo all’idea di sverginare un ritardato.»
«Chantal, per favore, non cominciare a fare la stronza, fai uno sforzo per stasera.» La pregai.
«Mm, che mi dai a cambio?»
«Tutto ciò che vuoi, decidi dove lo vuoi che io te lo do.»
«A casa nostra che la tua fa schifo.»
Chantal non era difficile da accontentare: si metteva alla pecora e amava farsi sbattere fino all’alba, Anais era ben più fantasiosa; visitava i siti porno estremi e prendeva buona nota.
Le gemelline erano omozigote: “con lo stesso DNA!”, ci tenevano a specificare; identiche, insomma, come due gocce d’acqua. Quando uscivano “a caccia di vittime” come dicevano loro, si vestivano e truccavano scrupolosamente nello stesso modo. Le divertiva alquanto far confondere la gente, si scambiavano di nascosto gli interlocutori per mandarli in completa confusione e osservare deliziate le loro espressioni di sconcerto. C’ero cascato più di una volta anch’io. «Come sarebbe a dire che mi leccheresti fino a consumarti la lingua? Sono Chantal, non quella viziosa di mia sorella.»
Eric non ci era cascato, però, ed era stato immediatamente in grado di distinguerle. «Anais ha una minuscola lentiggine sul lobo dell’orecchio sinistro.» Rilevò. La sua analisi andava oltre l’apparenza estetica. «Chantal è più seria; quello di vestirsi strano e fare l’alternativa è una posa, invece Anais è matta come un cavallo e ci crede veramente. Eh, eh.»
«Eh, eh.» Avevano ripetuto entrambe: una divertita, l’altra un po’ meno.
Chantal ed io, ci avevamo dato dentro per un bel po’ poi ci eravamo lasciati andare esausti, restammo a fumare, pressati l’uno contro l’altra, nel suo letto minuscolo, il tempo passava, ma la porta della camera di Anais non accennava ad aprirsi.
«Caspita, non me lo avrà mica ammazzato tua sorella?»
«Capace! e adesso se lo sta mangiando crudo.»
«No, seriamente, ora che ci penso bene: essere sverginati da Anais…»
«Già, come hai potuto abbandonarlo nelle grinfie di mia sorella? Sei proprio un pezzo di merda incosciente.» Confermò ridendo.
«La prima volta che esce con me: beve, scopa e rimane fuori tutta la notte. Sua madre mi appenderà per le palle.»
Infine decidemmo di andare a vedere che cosa ne era stato dell’amico. Chantal aprì la porta senza bussare. La stanza era a soqquadro, avevano tirato il materasso a terra, per fare chissà quali numeri, anais ora ronfava con l’aria di una gatta soddisfatta afferrandosi alla gamba di Eric. Lui le carezzava la testa, placidamente seduto contro la parete; fissava il vuoto, come al solito, con un lieve sfarfallio della mano e un sorriso a fior di labbra.
«Tutto bene Eric?»
«Sì, però ho fame… c’è qualcosa da mangiare?»
Anais ed Eric presero a frequentarsi, sembravano fatti l’uno per l’altra, lei era un turbine inarrestabile di grida, balli, risa: «Un’autentica rock star», come diceva lui, il suo fan più accanito.
«Incredibile: non ho mai visto mia sorella cotta a questo modo.» Osservò Chantal, indicandomi col mento Anais, avvinghiarsi stretta a Eric con occhi di triglia. «Mi domando che avrà di speciale il ritardato?»
«Smettila di chiamarlo a quel modo, brutta puttana!» Ammonì la sorella.
«Ritardato, ritardato…» Cantilenò Chantal, sfidandola.
«Adesso ti spacco la testa così vedo che c’è dentro.» Urlò Anais.
Le gemelline si accapigliarono come due selvagge: schiaffi, strilla, morsi… il litigio durò per un po’ fino a che, non senza sforzo, riuscimmo a separarle.
«Ma dai Anais, non te la prendere così, tua sorella non dice mica sul serio.» Cercò di calmarla Eric. Le due sorelle erano molto contrariate, ci fu un lungo silenzio teso e io pensavo già di togliere le tende però… Eric si sedette al Pc. «Che università frequenti, Chantal?» Domandò.
«Perchè?»
«Dimmelo che ti faccio vedere un bel giochetto.» Prese a digitare a tutta velocità, a modo suo: a testa bassa, senza guardare. Fece l’occhiolino ad Anais e poi cominciò a fischiettare un motivetto allegro. Osservammo affascinati le sue dita ballare il tip tap sui tasti e lo sconcertante flusso dei dati sul monitor. In meno di mezz’ora aveva perforato il sistema dell’università, ancora qualche rapido comando sulla tastiera, un ultimo return e apparve la scheda di valutazione di Chantal. «Caspita che brutti voti… fai proprio schifo a scuola. Eh, eh.»
«Ma, ma… come hai fatto?» Balbettò Chantal.
«Mica male per un ritardato.» Osservai.
«Hai visto brutta stronza!» Ribadì Anais.
«Buone, non ricominciate, già che siamo qui, effettuiamo una piccola rettifica, facciamo diventare sufficienti le insufficienze delle materie zavorra, per esempio: il Diritto Canonico… chi se l’incula il Diritto Canonico? Passiamo dal quattro al sei. Diritto Romano… ce ne può fregare di meno? Dal tre al sei. Ti darò un 6,5 in Storia del Diritto; tanto sono tutte panzane che si possono trovare con una semplice ricerca in rete. Ok, per oggi basta così.»
«Non ci posso credere. Puoi farlo veramente?»
«Certo che si può! Senza esagerare, altrimenti se ne accorgono. Ti darò una mano nelle materie inutili, però in quelle che servono non ti aiuterò a meno che tu non dimostri che le studi seriamente.»
«Accidenti, sei un genio, come posso ringraziarti?»
«Non litigare mai più con Anais per colpa mia.»
Eric aveva una marcia in più ed era bello stare in sua compagnia; ascoltava molto e parlava poco ma era sempre sensato e positivo quando diceva qualcosa, aveva il dono di animare, di trasmettere la sua passione e voglia di fare. Le gemelline decisero che era meglio condividerselo che litigare per lui.

Una sera eravamo d’accordo che ci saremmo trovati da Eric, profittando del fatto che la madre se n’era andata per il weekend, e che io avrei fatto la Paella. Al mio arrivo, dopo la spesa, li trovai tutti e tre a fare sesso sulla moquette del salotto. Le sorelline stavano baciandosi, cavalcando allegramente: una sfregava la passera sulla bocca di Eric mentre l’altra lo scopava. «Ciao, Manu, vieni a unirti alla festa?» Propose Chantal.

«No, ho un’idea migliore.» Suggerì Anais. «Perchè invece non ti seghi mentre ci guardi?»
Caspita, ho creato un mostro, considerai.
«Credo che farò meglio ad andare in cucina.» Annunciai sbalordito e un po’ invidioso.
In seguito vennero i problemi: Eric non era una persona come tutte le altre e per quanto si sforzasse, non riusciva a seguire il vertiginoso ritmo sociale delle sorelline; semplicemente non poteva andare in giro, frequentare i locali o partecipare ai concerti come facevano le gemelle e i loro amici. Le luci, la gente, il trambusto urbano, la musica ad alto volume, lo scombussolavano. Le sorelline se ne resero definitivamente conto quando, dopo aver insistito perchè le accompagnasse a un concerto di Black Metal, ebbe una crisi epilettica giusto sotto il palco. Eric aveva i propri tempi, le proprie routine, aveva soprattutto bisogno della Rete sicché, a malincuore, le gemelle lo lasciarono al suo mondo, lo andavano a visitare spesso, però; soprattutto quando erano giù di corda e le mancava la sua simpatia e il suo ottimismo.
Un paio di anni dopo dovetti lasciare Parigi perchè di nuovo facevo fatica a trovare lavoro: qualcuno aveva deciso che bisognava essere titolati per essere grafici creativi o realizzare i siti web.
«Non c’è problema.» Aveva proposto Eric. «Ti preparo io per superare gli esami.»
«Tornare a scuola per imparare cose che conosco perfettamente e che già faccio da anni? No grazie.»
Lasciare Eric e le gemelle mi risultò particolarmente penoso. Continuammo a restare in contatto, ma si sa… quando si è lontani non è la stessa cosa. Continuavo ad aver notizie degli amici, buone nuove per quanto riguardava Eric e brutte a proposito delle sorelle.

Chantal si era laureata ed era andata a lavorare nella banca di papà. «È diventata una fighetta insopportabile.» Si lamentava Eric. «Si veste da manager e viene a trovarmi solo quando è depressa o infoiata… uno strazio.» Anais, invece, era fuori controllo. «Va sempre peggio: da un pub all’altro, da un concerto all’altro, continuamente sconvolta.» La gemellina sembrava voler seguire fino in fondo la frase: “Vivi veloce, muori giovane e lascia un bel cadavere”. La tragedia era inevitabile.

«La mia Anais, si è schiantata nel Périphérique.» M’informò Eric una notte. «Guidando un Kawa 700 senza patente.»

La morte dell’amica lo fece soffrire molto, sebbene negli ultimi tempi la vedesse e la riconoscesse sempre meno, non volle parlarmi approfonditamente di lei e di cosa sentisse veramente, doveva farle troppo male. Mi mandò “Trash”, dei suoi benamati Suede, la canzone che invariabilmente Anais obbligava Eric a ballare con lei, nel loro consueto modo languido e stralunato, mentre Chantal e io li prendevamo in giro e ridevamo fino alle lacrime.

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#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori

Ossimoro. La bocca è chiusa ed escono tonnellate di piombo.

lunedì 26 maggio 2014

Quando la pazzia diventa poesia è #LessIs Sexy - Francesca Ungaro

C’è una passione che è cresciuta con me: la pazzia. La pazzia diventa poesia?

Ho iniziato come tirocinante, al secondo anno di università e curare la pazzia è ciò che più mi appartiene. Per qualche ragione, sono innamorata della pazzia. Perché?

La pazzia ha un sottile limite con la poesia 

È la poesia delle persone che non possono fingere ma che non capisci mai del tutto. È la poesia di chi puoi sostenere ma non pensare di salvare. Perché la sostenibilità si limita alla cura.

La mia prima mattina in ospedale psichiatrico cade in un lontano settembre. Entro, mi siedo, aspetto il supervisore. Un omone, grande e grosso, mi guarda turbato: si dondola a sinistra e a destra come a rassicurarsi. Forse a dirsi che va tutto bene anche se una ragazza sconosciuta si è seduta di fronte a lui. Resiste poco e va a sedersi lontano. Mi trema il cuore vedere quel corpo potente dondolare su se stesso per calmare i nervi.

Dal giorno seguente, ogni mattina, alle nove sono nella cucina dell’ambulatorio. Qui s’incontra l’equipe medica per la discussione dei casi clinici. Odore di caffè riscaldato mescolato a storie dure. Lo psichiatra responsabile del centro parla regolarmente coi piedi sulla scrivania, dondolandosi sulla sedia.

Che differenza c’era tra il suo dondolio e quello dell’uomo in corridoio che ieri aveva pauradi me? Ecco la mia prima lezione: la differenza sta nell’intensità del bisogno. L’impellenza e lanecessità di gesti che, da casuali, diventano sopravvivenza fisica e mentale. Qualcosa di indispensabile per evitare che i pensieri si spezzino.

Il gigante buono del corridoio è il mio primo paziente.

Ascanio, duro come l’asfalto, granitico come è l’autismo. Ascanio odia il fumo e chi lascia a terra le sigarette. Per cui lo vedi in cortile a raccogliere i mozziconi e a strizzarli. Poi te li mette in mano, come fanno i gatti col topo agonizzante fieri dell’impresa.

Il mio secondo paziente, Gianluca, è costantemente in lacrime. La prima volta arriva piagnucolando perché il padre l’ha picchiato e, in effetti, qualche segno sulla guancia ce l’ha. La settimana dopo, però, il padre è morto. 
Poi muoiono zii, cugini e perfino il fratello. Rimane solo la madre: è muta.

Quando una sera vedo padre e fratello ad aspettarlo, capisco il motivo di tutte quelle morti. Poesia nera, quella di Gianluca: ammazzo chi mi fa male.

Il più giovane dell’ambulatorio diurno è Umberto: capelli nerissimi e occhi sgranati come acini d’uva. Soffre di una psicosi mistica: stringere rapporti con le persone fa esplodere in lui il senso del peccato. È simpatico, mi ruba il motorino ogni mattina e lo riporta con il serbatoio pieno. Prende una cotta per me. Una cosa innocente, sufficiente a ricacciarlo nella malattia. Mi tolgono l’incarico, quando lo incrocio vedo ancora i suoi occhi neri che mi guardano dentro e oltre.

Quanto si può essere insostenibili senza volerlo?

Arrivo a Francesca, allegra e ossuta vecchietta, 78 anni, una diagnosi di schizofrenia, si veste sempre di bianco, in pizzo e macramè. Poetessa fin da bambina, scrive a matita su un quaderno a quadretti. «Peccato – dico un giorno -, se avessi usato la penna si leggerebbero ancora le poesie della gioventù». Mi zittisce.

La poesia va e sceglie di fermarsi dove vuole.

«Le parole vanno e vengono, non farci caso», continua. «Anche io una volta mi chiamavo Francesca, proprio come te!».

La poesia respira e si fa respirare, va e viene! Mi fermo. Spazio alla tua voce: sono riuscita a farti sentire quanto la poesia è forte dentro alla pazzia?

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Haiku di Mr.BornTweetty

Ciò che scende da 
questa penna è dolor 
che amo sentir..

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Vorrei volare - Manumora


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Poesia di Amato Maria Bernabei (Estratto dalla silloge "Dove declina il sole")

Un giorno ho guardato te 
ed ho smesso di vedere oltre. 
Come guardo la luna 
e l’abisso che la contiene 
è oltre

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#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori

L'ansia repressa fa implodere il proprio cuore. 
L'ansia espressa dilania il cuore altrui.