Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: giugno 2014

lunedì 30 giugno 2014

#ScriviloSuUnFoglio - Niva


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Per i portici un pomeriggio - Cotrozzi Livio

Se ne va per i portici un pomeriggio,

qualcosa da dentro l’ha chiuso fuori,

ancora una volta deve farsi uomo

nel tardo sole di primavera



Trepido segue il vostro gioco,

il sorriso fugace,

i gesti, la gloria mendace,

e cielo patrio che scompare.

Volevi farlo volare nei tuoi pensieri

mentre tu, tentavi di ritrovarti,

per lasciare il ricordo in una poesia.



Spuntano i germogli come orecchie

sul tronco d’un monte scuro

e mentre esplodevano

quel tondo di fuoco nel mezzo al cielo

riscaldava il tuo sguardo di seta liscio e sorridevi.



Ora nel grande vuoto

ondeggiano soli i fiori della magnolia

e tu steso al sole come grano cresce

scompigliato dal vento e dal dolore.



cotrozzilivio©2014

Fatto Male - Sickboy


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Haiku di Beppe Malizia

guardami dentro 
solo se tu non soffri 
di vertigini

domenica 29 giugno 2014

La croce dell'io - Il Resto del Caffè

Mi lavo i denti davanti allo specchio, mi guardo: mezzo busto con spazzolino elettrico, bianco e moderno.

Non poter portare il proprio corpo nudo a prendere il sole neppure d’estate è molto moderno.

La schiavitù in chiave progressista ha qualcosa di perverso.

Il sacrificio, la rinuncia, la fatica sono assorbiti dall’immaginario collettivo in un senso del giusto, oltre che del bello. Come mangiare sushi a mezzanotte investiti dalle luci artificiali di New York.

Il nulla che divora il nulla tutto intorno, un prefabbricato come casa, la terra sterile che seppellirà un uomo nel Nebraska, sono particolari che cadono nel vuoto della dimenticanza, la stoffa grezza e immiserita da esistenze anonime, la maggioranza. Sulla lapide è scolpito il fallimento del sogno americano: Ho servito il mio paese, ho pagato le mie tasse e il mio diritto di lasciarmi vivere fino a morire in pace.

Per uno che conquista il suo nome su una stella, mille precipitano nel buco nero dell’insignificanza.

I premi alla meritocrazia, la competizione serrata, il ritmo accelerato e la sua necessità giustificano la violenza di una complicità negata, con gli occhi delle persone che non ti fermi a guardare, calpestando il loro dolore e il tuo istinto indebolito all’aiuto reciproco, preferendogli un frustrato impasto di cinismo e composto distacco.

Che sia il caso, la fortuna, la lotta per l’esistenza o una miscela esplosiva dei tre …

Così va il mondo bambina mia.

La sacra comunione imbevuta di senso d’impotenza è l’unzione più estrema.

Un ave maria prima di andare a dormire assolve il tuo dovere morale e ti solleva dall’arroganza di improvvisarti Dio partecipando ad una società che tenda ad ammortizzare l’onda d’urto di fenomeni che, almeno in parte, si potrebbero controllare.

La tecnica è quell’arma umana di cui ci limitiamo a sfruttare il più deleterio potenziale. Perché il bene e il male sono determinati dall’uso che si sceglie di fare dello strumento, vale per la ricerca scientifica come per il nucleare.

Il prezzo da pagare è la solitudine insita in un modello che spezza la solidarietà sociale.

Fa parte del pacchetto: un piccolo individuo, seduto ad un piccolo tavolo, ad accarezzare la sua piccola porzione di successo. E nessuno accanto a cui confessare che sei solo come un cane.

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Haiku di Rosanna Salvadori



L'alta cupola 
Senza superbia veglia 
Sulle stradine

Prigionieri - Sickboy


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Evocazione di un canto - Giovanni Zunico


Haiku di Beppe Malizia

il dì riluce 
si disegnano a terra 
nuvole in cielo

sabato 28 giugno 2014

#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori


L'ironia ha tanti colori. Vorrei essere la sua tavolozza leggera.

L'onorevole - Franca Figliolini

L'on. Santo Quasimai era alla sua terza legislatura. All'inizio era uno come noi, e anche dopo a dire il vero. Faceva quello che facevano tutti: aiutava gli amici ad entrare nei CdA delle partecipate; raccomandava compagni di partito; presentava emendamenti per aiutare potentati del suo distretto elettorale... Insomma, le solite cose. Niente di illegale, sia chiaro. Certo, durante una serata elettorale, un'inaugurazione, una fiera... poteva capitare di stringere la mano a un camorrista, o uno ndranghetista, un mafioso o un semplice criminale, e magari di fargli anche un favore, ma lui come poteva saperlo?
Non sapeva niente, Santo Quasimai, e coltivava l'ignoranza come fosse la sua unica ricchezza, un baluardo contro le inchieste che fioccavano contro i suoi colleghi. «No, no, non voglio sapere niente...», era la sua risposta a chi gli voleva spiegare perché o per conto di chi chiedesse la tal cosa o la tal'altra. «Ci sono quelli che esagerano, che si vogliono mettere in mezzo. Io no. Io voglio restare pulito», diceva nelle rare interviste televisive.
Infatti, Santo Quasimai, contrariamente ai suoi colleghi, non voleva apparire. Non rilasciava volentieri interviste, non aveva account su Twitter o Facebook ed il suo cellulare era un vecchio arnese polveroso, perché non lo usava quasi mai.
Un giorno, però, si ritrovò in Transatlantico assediato dai cronisti. Un nugolo pressante di telecamere e microfoni, tutti che volevano sentir parlare l'unico deputato di lungo corso che non avesse mai ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. «Onorevole, onorevole! Ci dica come mai!», gridavano quegli scatenati.
«Come mai che cosa? Io non so niente...», fu l'unica risposta di Santo Quasimai. E quelli furono costretti a lasciar perdere. Ma siccome la stampa aborre il vuoto, il giorno dopo i giornali erano pieni di peana in suo onore. «L'ultimo degli onesti», lo chiamavano, e lodavano la sua modestia. «Perché non sono tutti come Quasimai?», si chiedevano gli editoriali, indicandolo come unica salvezza per il paese.
Così, quando l'anziano Presidente, costretto dalle tempeste giudiziarie che attraversavano la penisola come altrove i monsoni, dovette scegliere un nuovo capo del governo, la scelta di Santo Quasimai sembrò inevitabile. L'onorevole fu convocato a Palazzo. «Quasimai, posso fidarmi di lei?», gli chiese il Presidente. «Certo, sono a disposizione», rispose: come aveva sempre fatto.
Il governo di Santo Quasimai fu come tutti gli altri: durò poco e non fece quasi nulla. In compenso, non promise niente, sicché tutti dissero: «È un uomo che mantiene la parola». Così, fu rieletto con moltissime preferenze, ma, ahinoi, morì prima di poter ricevere il nuovo incarico. I funerali furono imponenti. Tutto il paese lo pianse. La Camera lo ricorda con una sobria targa all'ingresso del palazzo:

QUASIMAI
UN UOMO ONESTO



Poesia da Twitter di Giuseppe D'Ambra

Del dolore 
divieni il sollievo 
dell'amore 
il supplizio eterno 
il vuoto 
è la traccia 
dell'inesorabile morte.

Poesia da Facebook di Giovanni Zunico

Cinquantuno inverni stanno per passare
io qui ad aspettare la tua mano e una carezza dal ciel.
infausti i giorni di attesa calarono oltre la sera.
dalla fonte dei gemiti, alla miseria degli oscuri eventi,
ho forse ammirato quei pochi momenti di piacere;
dopo, il freddo ha invaso il mio corpo.
nell'attesa che il germe della purezza invadi lo spirito
delle mie nefasti spoglie, vogliate per adesso 
segnarvi i miei ricordi ed una promessa
che di primavere ce ne saranno ancor.

Haiku di Beppe Malizia

pezzi di sogni
che al mattino confondo
coi miei ricordi

venerdì 27 giugno 2014

Giullare News: Orso bruno, sbrana 5 mucche sull'Altopiano dell'Asiago - Lucia Borrello

Il carnefice fa strage di animali e ne lascia altri agonizzanti o in preda al panico

Nell'Altopiano dell'Asiago, lunedì notte avvistato nuovamente un orso bruno, che in due settimane ha sbranato 5 mucche, lasciandone altre agonizzanti, per poi tornare più tardi a completare il suo pasto. L'orso bruno è un animale prevalentemente notturno e solitario, è onnivoro e si nutre di prodotti vegetali, pesci, insetti e di piccoli mammiferi, ma quando è veramente affamato va in cerca di cibo arrivando persino ad avvicinarsi alle zone abitate, avventurandosi all'interno delle stalle dimora del bestiame d'allevamento situate nei pressi del suo habitat naturale. Qualche notte fa è successo proprio questo. Il carnefice (così è stato definito l'orso, un maschio di circa 3 anni che pesa attorno a 1 quintale e mezzo) è ritornato a terrorizzare gli agricoltori e allevatori della zona.

In questi giorni le categorie degli allevatori si sono fatte sentire, chiedendo alla regione di far fronte ai danni subiti agli allevamenti e di garantire mobilità e tempi certi, per difendere i capi di bestiame. Il presidente regionale della Commissione Bilancio, Costantino Toniolo (Ncd), a preso incarico di presentare un interrogazione alla Giunta in merito al caso.

Il problema, però non è di facile soluzione, come spiega l'assessore alla Caccia, Daniele Stiva, visto che l'orso è una specie altamente protetta dall'Unione Europea e non può essere abbattuto. Il Corpo Forestale dello Stato e il Corpo di Polizia Provinciale, hanno già formato squadre di emergenza e stanno collocando sul territorio un sistema di segnalazione e una rete elettrificata per circoscrivere la zona, rendendo più problematico l'avanzamento e nuovi attacchi notturni da parte degli orsi.

Lucia Borrello

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Aisha - Leonardo Pisani

Flash... Irruppe come un lampo; ma prima arrivarono le stelle, poi il suono di un tonfo senza alcuna poesia di una pioggia battente odi un acquazzone estivo, come quelli che Rosario ricordava da giovane nella sua Sicilia. Fu un lampo, certo, ma meno poeticamente un gancio destro buttato senza neanche tanta maestria,sgusciato dentro un sinistro lanciato senza passione, senza forza,senza disperazione. Un secondo, forse neanche una frazione di un attimo e Rosario si trovò ad ascoltare il freddo tappeto del ring ; un tempo non sarebbe successo.Un tempo avrebbe rivisto l’identica scena ma al suo posto uno dei tanti avversari senza volto o con strani nomi che incontrava. Giorni lontani che spesso a stento ricordava,qualche titolo di giornale, il titolo italiano, in match vittoriosi in diversi angoli d’Europa. Ora, invece si era trasformato inun sacco vivente per giovani boxeur di belle speranze, un perdente dalla borse impoverite, facile preda di giovani avvolto del quadrato.
Si alzò. Velocemente solo per quel orgoglio siculo che non l’aveva mai abbandonato; per fortuna.
Ed ancora un round, un altro round ed un altro ancora per guadagnarsi quei pochi euro di cavia umana.
– a campioneeee...magni troppe schifezze e ti sei appesantito. Vai dal dietologo convenzionato che per 100 euro ti rimette in forma. Era Franco, l’allenatore in seconda dell’Indomita Pugilato, l’unico che lo chiamava per allenare le giovani promesse.
“100 euro, ci mangio due settimane al Mc...” pensò, mentre rispose che prima o poi ci sarebbe andato.
Poi la doccia, un lusso che di rado si permetteva se non quando rimetteva piede in palestra per farsi r empire di ganci e montanti. Che meraviglia, calda, rilassante faceva dimenticare ogni cosa della sua vita andata a rotoli: il matrimonio, la carriera, la sua vita stessa farcita di stenti e di cazzotti quasi a gratis.Eppure una volta era un emergente, non un campionissimo ma un ottimo professionista: rare sconfitte e tante vittorie da portarlo alla corona italiana e metterlo in corsa per l’Europeo. Poi qualcosa non andò,innamorato incominciò a sentire i colpi e non colpire più con la precisione e a forza di un tempo. Poi il destino prese il sopravvento, un incontro sbagliano, due, tre quattro sconfitte, e la rottura con Maria. Lo chiamavano Bozooka con quell’enfasi del mondo della boxe; dove tutti hanno un soprannome:mano di pietra, il cobra, kid, sugar... ora non aveva neanche quel nomignolo:perdente in tutto...
Lasciò la palestra,s’avviò alla fermata del bus, rollò una sigaretta con tabacco cubano nell’attesa per quel appuntamento serale cui mai avrebbe mancato. Mai, mai,mai.
Lo spaccio del quartiere dove viveva, era pomposamente chiamato The Drugstore per dare un aria americana ad un locale frequentato da arabi, africani, filippini e qualche raro avventore italiano come Rosario. Ogni tanto un caffè d’orzo, la scusa di mangiare un Kebab, oppure di chiedere a le cosa fossero quelle strane mercanzie d gli ancor più strani nomi. Lei sempre cordiale, con un sorriso di rara bellezza scintillante di perle bianche rispondeva anche più volte alla stessa domanda. No, Rosario aveva memoria, ma era la scusa per poter parlare con Aisha, seppur la sua timidezza non gli aveva mai in tanti mesi fatto osare una normale conversazione. Preferiva stare nel Drug, parlare con chiunque e soprattutto osservare lei, la sua ambrata pelle egli occhi di una gazzella.Aisha, la sua Aisha che scacciava gli incubi di una v ta che fu e gli stenti di una vita presente. L’antico welter ,ora pesante mediomassimo,era a suo modo uno stoico: lavori occasionali, lo sparring per un pugno di euro, qualche incontro sempre da perdente ma ormai sempre più rari.

Rimpianti ne aveva,troppi ma la sua rassegnazione per qualcosa cui nulla a potuto e nulla forse poteva evitare, ora la sopportava con la modestia e l’umanità di un uomo che sapeva di essere finito in un vortice di mediocrità, cui nulla può e nulla poteva per rimediare.
Squillò il suo NokiaUsato

- Sei Sveglio? Era Seghezzi il suo manager
- Si dottore, novità? Rispose Rosario
- Manca l’avversario per Rodriquez, lo spagnolo. Te la senti di fare 8 round?
- Come no' , dottore,.. dove e quando volete
- Allora a Giardini Naxos, 500 euro, biglietto di treno andata e ritorno. Il 20 agosto alle 8 devi essere lì per firmare contratto e fare peso. Certa di non superare gli 82 chili se no va tutto a rotoli e paghiamo penale.
- Non preoccupatevi dottore, sarò in forma.
Sapeva di non esserlo e Rodriguez era un emergente, poca tecnica ma una forza bruta della natura,veloce ed il pugno avvelenato. Ma 500 euro non erano da buttare e sopratutto ritornare a gratis nella sua Sicilia, lo rendeva felice.
Fece un salto in palestra: un po’ di corda, il punching ball alla francese, qualche round di pera e per finire una mezza ora di corsa leggera. Poi il peso,79 kg,bastava non eccedere, nessun problema e nessuna penale.
Doccia calda in fretta e poi di corsa alla fermata bus, questa volta avrebbe parlato ad Aisha del suo prossimo match, semmai esagerando sull’importanza dell’impegno.
Era lì sempre dietro al bancone a mescere orzo o ginseng,con il suo sorriso per tutti, a ridere semmai qualche battuta e sorridere a qualche frase.

- Ciao Aisha
- Ciao,caffè al Ginseng?
- Perchè no... Sai domani sera parto per la Sicilia, lamia terra
- Vacanze?Che bello
- No,ho un incontro, sai sono un pugile
- Si,si.. so, so e sei Bravo.
- Non sono male. Ho un buon pugno e se vincerò chissà poi combatto per ilt itolo.
Non le aveva mai parlato, se non per chiedere un caffè o la scusa per informazioni , ma inulla di personale. Ritornò a casa, dondolando quasi fosse stato pestato perbene in allenamento ma era solo felicità, aveva parlato alla Aisha, finalmente.

Rosario perse il treno di pomeriggio, arrivò a Messina poi a Giardini Naxos con un’auto dell’organizzazione, in tempo per il peso e firmare il contratto. Uno strano incontro, dal primo al sesto round Rodriguez si divertì a colpirlo come e quando voleva, con forza e cattiveria ma anche quando poteva finire il match non affondava la mazzata finale; lo spettacolo prima di tutto. Poi il surreale ,l’iberico lanciò un diretto destro potente ma lento, telegrafato e l’antico boxer deviò con la mano sinistra ed’istinto colpì d’incontro. I giornali del giorno dopo scrissero un trafiletto :”incontro vinto da Rosario Spatafora con un colpo fortuito”. Il vecchio campione vinse,massacrato e dolorante ma vinse anche se per fortuna, cosa importa ogni incontro a una storia a sé.
L’esperienza di anni di pugni gli avevano insegnato tanto,tanto da comprendere l’eccezionale ma cosa importa, si godette la vittoria che leniva ogni dolore ai punti vitali colpiti da Rodriguez e quel maledetto mal di testa non gli faceva certo dimenticare Aisha dagli occhi di cerbiatta.

Il ritorno a Milano portò tutto nella solita vita senza qualità e senza slanci, ma qualcosa nel vecchio combattente era successo. Ritorno all’Indomita, si allenò con Franco come da anni non aveva mai fatto e a bruciapelo chiese :“Ho vinto ma se dovessi fare per 100 volte quell’incontro lo perdo per Ko. Ho 38 anni, dimmi Franco potevo diventare un Campione?”
Franco tentennò poi rispose con difficoltà: “Potevi Rosario,potevi, peccato il tempo è passato”.
“Fa nulla” pensò dopo preso da una strana frenesia si vesti, saltò la calda doccia e di corsa uscì;neanche il bus prese preferendo camminare. L’unico pensiero in quel suo mal di testa era di rivedere Lei, di parlarle di non essere sconfitto dalla suatimidezza.Parlarle come mai aveva osato, accarezzare le sue mani di velluto e dirle “Ti Amo coma mai ho amato”.
Rosario arrivò al Drugstore,ma non entrò, si limito ad osservarla pletora di clienti dalle mille lingue ed accenti, celato dietro ai pilastri della banca osservò Aisha da lontano poi andò via, fino al bar più lontano. Una grappa, un gin e poi altri 2, 3 senza contare e senza mai smettere di sognare di poter accarezzare la sua pelle ambrata e di baciare teneramente le sue labbra di cedro. Poi il buio, fu malamente cacciato da un cameriere e barcollando tornò a casa, con quel maledetto mal di testa reso ancora più forte dall’umidità d’un agosto lombardo.
Dormi fino a pomeriggio inoltrato, si sveglio a fatica non avvezzo a bere e preparò il sacco con indumenti e guantoni da allenamento. Franco era sempre al solito posto,sigaretta in bocca accesa malgrado il divieto di fumare, qualche novizio faceva boxe all’ombra e i big della società sarebbero arrivati a breve., 
“Ehi Bazzookaaaaaaaa ma non ti riposi dopo le mazzate prese da Rodriguez?” scherzo Franco
- No,sto bene ed ho bisogno della pagnotta, faccio sparring anche oggi per i tuoi campioncini

Un normale allenamento,Rosario usava il mestiere di anni di boxe e decine di incontri, mentre il nuovo talento cercava di colpire con maggior forza possibile il vecchio boxer.
Un lampo ed un tuono colpirono Rosario: il solito sinistro troppo largo e troppo lento, mentre il giovane con arte fece un passo a sinistra tirando un cross destro d’incontro.Poi il gong di fine ripresa,Rosario abbassò la guardia ma fu colpito al volto.
Franco aprì la bocca dallo spavento, la sigaretta cascò a terra, il giovane pugile immobilizzato.
Rosario resto quattro o cinque secondi immobile, poi crollò al tappeto a faccia giù.
I suoni della palestra cessarono, tutti si diressero verso il ring, mentre Franco con un asciugamano soccorse il vecchio campione.
- Bazooka senti? Gridò Franco
- Rosarioooooooooo..rispondi----
- Dai cazzo,campioooneeeeee alzati...
-Aisha- disse Rosario,poi chiuse gli occhi, ma c’era tanta luce ed il mal di testa era finito. Non aveva mai immaginato che in quello scantinato potesse esserci tanta luminosità,tanti colori e soprattutto quegli occhi di gazzella che amava.
- Aisha, Aisha-Aish..... E poi venne il buio.

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Il vantaggio di essere se stessi - HoloJay

Oggi vi racconto una storia, la storia di un ragazzino che voleva essere qualcun altro.
Elia è un bambino serio, disciplinato. Rincorre gli altri allo stesso modo in cui segue le regole. Deferente. Si tormenta pensando troppo a quello che ha da dire. Ci si arrovella proprio. E quando trova quel qualcosa e sa che è il momento, lo dice con tanta di quella foga, che poi non riesce a dirlo proprio. Sul serio. Balbetta in maniera inconsulta. Sputa tutto e diventa paonazzo, con le vene sul collo che pulsano. Gonfio.
La storia di Elia è la storia di un bambino che vuole piacere ed assecondare gli altri. Vuole integrarsi ed essere amato. E questo, forse, proprio perché non può. Perché quando sei dentro qualcosa e non sai di esserci dentro, non ti accorgi dei tuoi tentativi che sono ridicoli, che sono goffi e maldestri. Se pensi di voler entrare in qualcosa, è perché, spesso, sei lì fuori da solo, lontano dalla comunanza che tutti sembrano condividere.
Elia ha le lentiggini, che macchiano il suo viso innocente, come le ferite dell'indifferenza degli altri.
Elia è un bambino che non sa che, se speri che qualcosa accada, questa di te se ne infischia. Se speri che qualcosa ti insegua accorgendosi di che essere fantastico tu sia, beh, puoi morire nell'attesa.
La verità è che Elia, per quanto è stato respinto, ha paura ad essere se stesso, pensa di far male a comportarsi come fa. Anche a parlare come deve, come se fosse riprovevole.
Elia cammina sui cornicioni, sui rami degli alberi dove dondola come se fosse appeso ad un'altalena. E, lì dove nessuno lo vede, può anche piangere ogni tanto. E chiedere che qualcuno si accorga di lui.
Sulle ringhiere scrostate, tra fiori di metallo e gerani, guarda il vuoto colorato di sassi, pietre e asfalto, e i gatti che camminano dove lui non può, lì sulle tegole dei palazzi.
Certe volte vorrebbe cadere per sapere che cosa si prova ad essere amati. Perché la caduta ed il disprezzo sono gli unici mondi che conosce.

E, se io lo conoscessi, ecco cosa gli direi: Sai, mio bel bambino, cosa cambia nel non aver più paura di essere se stessi? Nulla, in fondo, perché tu sei comunque te stesso, anche ora, mentre fingi di essere qualcun altro. La verità è che non puoi cambiarti anche se insisti per cent'anni. L'unico sollievo è fregarsene. Perché, se te ne freghi, puoi spostare il punto di vista, puoi non darti tutta la colpa; può darsi che da qualche parte ci sia qualcuno adatto a te. E se, passando da un cornicione, guardi giù e ti piacerebbe saper volare, non lo fare, perché ho io per te l'antidoto. Qualcuno una volta ha detto che un uomo con una forte vita interiore basta a se stesso. E io ti dico: basta a te stesso, trova gli altri perché lo vuoi e non perché ne hai bisogno. Vola con la mente e non con i piedi. Quelli, tienili ben saldi a terra. Tocca prima la terra e da lì salta più in alto che puoi. E per finire poi, ti do altri tre consigli, che sto scrivendo un po' dovunque, nel caso anch'io mi dimenticassi di seguirli:
# Basta non dire;
## Basta omettere;
### Basta nascondersi;
Perché, ricordati che, essere se stessi è sempre un vantaggio.

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#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori





L'umanità che si priva del cielo non conosce i tramonti, respiro e riposo vitale.

Haiku di Beppe Malizia

buchi di sole 
che alberi concedono 
fra l'ombre a terra

giovedì 26 giugno 2014

#ScrittureBrevi - Rosanna Salvadori


Quando il ragno tesse la sua tela la immagina finita.
Ma non sa se la vedrà.

Preghiera - Simone Giordano

Ci serve qualcuno. 
Non uno qualunque ma 
qualcuno come Te. 
Capace di mostrare 
che le cose possono cambiare. 
Che non abbia interesse a parlare 
ma sappia sparare senza far male. 
Qualcuno che cerchi il bene del male 
e consegni il male al bene. 
Che sia con noi: 
presente 
pesante 
pensante 
Che sia Nel mondo: 
Assente 
assestante 
assonante 
Un Vagabondo generatore di 
speranza 
gloria 
amore 
impresa 
sconfitta 
sudore 
caduta 
vista 
acume 
sorpresa 
potere 
umiltà, 
e testimonianza. 
Ci serve qualcuno, 
ne abbiamo bisogno. 
Qualcuno che sia come Te. 
Capace di amare quello che odia 
mostrando all'amore che l'odio è 
amare chi odia l'amore. 
Privo di 
pretese, 
pieno di 
contese e, 
se con te starà, lo sarà; 
come Te! 
Ci serve qualcuno come Te.

Poesia da Facebook di Giovanni Zunico

Creature del mondo 
possa l'uomo dar progenie di vigore,
affinché lo stelo mantenga voluttuoso
e acerbo l'origine della dolce prole.
consti il suo volere 
come alla pietra il suo dolore,
sin quando l'egoismo
insito ed innato,
produca vibrante ego
al suo operato.

Haiku di Beppe Malizia

forte la donna
più d'uomo rifugiato
nei suoi muscoli

mercoledì 25 giugno 2014

Poesia da Twitter di Giuseppe D'Ambra

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Un fragile fiore stringevo ora di quell'essenza satura è l’aria.

Lussuria - Giovanni Zunico

Lussuria......
che mandi in delirio vite sprezzanti della notte, che agli angoli del male favorisci il debole, che alla passione preferisci effimere emozioni, che impedisci al saggio eteree virtù, che implodi al brutale rifiuto del godimento fumoso e perdente......

#ScriviloSuUnFoglio - Eugenia


Haiku di Beppe Malizia

in un sorriso 
la vita e la morte
che abbiamo dentro

martedì 24 giugno 2014

Hai incontrato lei - Ri.Ma



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Possessioni (non solo carnali). Dominazione e riti di sangue. - Luca Della Casa

L’altare, con statuette di santi cristiani e idoli africani, emergeva da una bassa e folta siepe di rovi. Tra le spine si trovava un po’ di tutto: ossa, monili, brandelli di vestiti, petali, avanzi di cibo… C’era pure una mia foto, già era proprio il mio viso quello, o ciò che ne restava nell’immagine sbiadita dalle intemperie. “Prego spesso per te.” Affermò la signora, rispondendo al mio sguardo interrogativo.


Da “Il piacere di morire”. Primissima stesura.



Scossi la testa senza sapere che dire. Anche i brandelli di tessuto mi appartenevano: facevano parte dei vestiti che avevo indossato nel nostro primo incontro. Provai una sgradevole sensazione inspiegabile, che l’ebbrezza riuscì ad attenuare solo in parte.


Davanti all’altare era stato disposto un piccolo camposanto con una decina di croci bianche. Sui piccoli sepolcri avevano sistemato una moltitudine d’offerte floreali, candele, ciotole con cibo e bottiglie di liquore. Delle galline nere beccavano tra le tombe, dando alla scena un assurdo aspetto agreste.
“Chi sono i defunti?”
“Confratelli. Cloe ha portato le loro ossa da Haiti.”
“Mi sembra tutto molto lugubre. Voglio andarmene.” Mugugnai.
“Non dire stupidaggini. È già tutto pronto.” La signora mi prese per mano e mi condusse a un tavolo apparecchiato.

“Ecco il mio amico Manuel.” Disse ai presenti; i quali, visibilmente infastiditi, salutarono a malapena.

Anche gli ospiti erano vestiti di nero: con giacca e cravatta gli uomini, ed eleganti completini le donne; sia gli uni che le altre erano tatuati, s’intravedevano intricati disegni su mani e collo. I maschi erano rapati corti e le femmine, invece, avevano i lunghi capelli neri raccolti sulla nuca.
Ci fecero sedere a capotavola; io da una parte, Rita dall’altra. Rivolsi un sorriso nervoso agli invitati; fui ricambiato con occhiate diffidenti. “Puto gringo!” mi parve di sentire bisbigliare; feci finta che si trattasse della mia fervida immaginazione. I piatti erano serviti dallo stalliere che fin dalla prima volta che l’avevo visto, mi aveva dato l’impressione di essere un disgraziato. Il poveruomo si affannava avanti e indietro dalla parrilla, e nessuno lo aiutava. Era magro e alto, con il colore della pelle caffé latte come quello di Cloe; anche lui sembrava vestito a festa ma con un abito un paio di taglie più piccole della sua. C’era qualcosa in lui che ricordava un morto ambulante. Non cucinava male però; pietanze composite allo stile creolo: banana fritta con formaggio fuso, yuacca, riso, fagioli, verdura, carne di pollo e maiale.
Circolarono un numero imprecisato di birre che contribuirono ad accrescere la mia ubriachezza ed alleggerire un poco la tensione di pranzare con simili commensali. Poi fu la volta del Ron e della Tequila; la mia sbronza assunse dimensioni colossali.
Un paio di donne aiutarono il morto vivente a sparecchiare mentre le altre si dedicarono a tracciare dei disegni con farina sulla terra scura, seguendo le indicazioni di Cloe. Erano dei bei fregi stilizzati: navi, cuori, tombe, croci, fiori; proprio come le decorazioni in seta del vestito di Rita.
“Che cosa fanno? Domandai ai tipi rimasti a tavola?”


<strong>“I veve dei Loa: Legba, Gede, Brigitte, Le Barón Samedí…” Disse uno, con ridicoli baffoni da duro, indicandomi i ghirigori.
Scossi il capo corrucciando la bocca: non sapevo di che accidenti stesse parlando.
“Ah, lascia perdere.” Mi rispose con derisione.
“È così difficile da spiegare?” Continuai.
“Difficile da capire se sei gringo, impossibile se sei tonto.” Asserì un balordo col pizzetto, tra le risate generali. “Fai conto che è per una festa.”
“Che festa?”
“La tua, gringo tonto, la tua… E vedrai che festa.”





Erano quattro cialtroni odiosi e sicuri di sé, conoscevo il genere; si sarebbero dedicati al loro divertimento preferito: la derisione. Gli ignoranti, orgogliosi della propria ignoranza, trovano inconcepibile che non si capisca il loro mondo gretto e spregevole, sicché credono doveroso offendere e umiliare gli altri. Si sforzarono, dunque, nel dimostrare quanto fossero furbi, con battute idiote a proposito della gran disdetta d’essere gringo. Sopportai i loro stupidi scherzi per un po’, mentre sorseggiavo la Tequila, sorridendo, annuendo, senza farci troppo caso.


Rita restò impassibile, col consueto sorrisetto da Mona Lisa: sembrava che non le importasse troppo che i suoi gentili ospiti mi trattassero di merda; aspettava la mia reazione, con una certa curiosità. Potevo sentirlo chiaramente; sicuramente le sarebbe andato a genio un bel pestaggio: la violenza e il sangue la eccitavano, questo lo sapevo bene. C’è qualcosa di più odioso dei maschi che si battono per le femmine della specie? Decisi, nonostante, di dire la mia, animato dall’alcool e dall’insensato desiderio di compiacere la femmina di turno.



“Come si chiama la vostra Mara merdosa?” Domandai, senza preamboli giacché non ero troppo esperto nella sottile arte della beffa.
I quattro tacquero improvvisamente; i loro sorrisetti detestabili erano scomparsi.

“Scommetto che è la ‘Ocho’! Me muero por mi clica.” Scimmiottai. “Siete disposti a morire per la banda; non è così? Conosco un mucchio di gente che vi accontenterebbe volentieri.”
“Bada a come parli pince gringo de mierda.”
“Altrimenti che cosa; metterete mano ai ferri del mestiere?”
“Chinga a tu madre!” Si alzarono in piedi tutti e quattro aprendo le braccia; a quanto pareva non avevano portato i cannoni.
“Sul serio, niente armi?” Constatai, fingendo incredulità.
La mia mano partì da sola; spaccai una bottiglia di Ron in faccia al tipo del pizzetto che si era dimostrato così spiritoso.
“Ops, Magari avresti preferito la Tequila.”
Lo finii con una bella pedata nei gioielli di famiglia. Poi passai a riempire di pugni l’altro amichetto; lo presi di sorpresa propinandogli una lunga serie di diretti con tutte le forze, in piena faccia, fino a farlo crollare. Gli altri due mi saltarono addosso. Erano mosci: i pistoleros non valgono un gran che a menar le mani.
Mi dedicai a demolire anche un terzo pagliaccio: diretto al plesso, gancio alla mandibola, presa a due mani dietro la nuca e ginocchiata con salto, in piena faccia.




Il quarto ospite; pensò bene di rompermi, a sua volta, la bottiglia sulla testa. Il laudano e l’alcol attenuarono il dolore ma non la rabbia che crebbe, invece, esponenzialmente. Per la prima volta nella vita provai il desiderio di ammazzare qualcuno.

Alla fine sembrava che Rita fosse riuscita dove aveva fallito Leanne. Afferrai il malcapitato per il bavero e mi lanciai insieme a lui sul tavolo, facendolo crollare sotto di me, con gran trambusto di assi rotte, piatti e bicchieri che andavano in frantumi. Tempestai la vittima di gomitate; avevo deciso che non mi sarei fermato fino a che non gli avessi ridotto la faccia a spezzatino. Non me lo permisero; spose e fidanzate presero parte alla festa. Le donne delle Maras picchiano anche loro: pugni, calci, morsi e graffi. Intravidi Rita e Cloe assistere, affascinate e divertite, a quello spettacolo vergognoso. La cameriera disse qualcosa allo stalliere e fu proprio lui, il morto ambulante che mi aveva fatto così pena, a terminare la rissa; a suon di bastonate sul mio cranio.


L’acuto dolore mi aveva fatto risvegliare. Mi trovavo nudo, legato, e disteso nella polvere. Rita era appollaiata in ginocchio sul mio stomaco; stava intagliandomi il petto con la lama di un coltello.

“Non mi aspettavo che fossi così brutale.” Sussurrò affettuosamente. ”Mi piace quando ti comporti come un selvaggio.” 
Gli invitati erano disposti in semicircolo; cantavano una nenia incomprensibile e monotona, tenevano il ritmo battendo le mani, mentre lo stalliere e il baffo suonavano congas e tamburi. La loro attenzione era tutta per me: occhi neri, denti rotti, labbra spaccate; dalle occhiatacce dei presenti, si capiva che avrebbero preferito ammazzarmi invece che far musica.

Rita proseguì la sua opera d’arte, tracciando accuratamente il disegno di un cuore trafitto da una spada. Ripassava con calma le incisioni facendole larghe e profonde; aveva le dita imbrattate di plasma. Quando il sangue era troppo abbondante e non le permetteva di vedere i propri ghirigori, versava del liquore sulle ferite e poi le ripuliva con gesti rapidi della mano. Rita, mi rivolgeva sguardi e sorrisi, al tempo stesso folli e amorevoli.


“Cristo Dio, cosa mi stai facendo?” Mi lamentai.

La signora non rispose, leccò le ferite e poi mi baciò sulla bocca. La sua lingua cercò morbosamente la mia per condividere il sapore di sangue e di Ron.

Le endorfine, l’alcol, il laudano, e va a sapere che cos’altro mi avevano fatto mangiare, mi trascinarono nella semincoscienza; in un turbine vertiginoso di dolore, ebbrezza e paura. Di nuovo mi passò davanti agli occhi lo scempio dei corpi delle vittime di Cutting Edge; l’idea di finire a quel modo mi terrorizzava.

“Non ti preoccupare!” Assicurò una voce. “Ti vuole vivo, per il momento.”
Misi a fuoco il mio interlocutore: un negro alto, dall’aspetto atletico e l’età indefinita; era vestito a lutto pure lui, tanto per cambiare, con piccoli occhiali da sole rotondi. Indossava livrea e mezza tuba; ricordava un addetto alle pompe funebri dell’Ottocento. Fece qualche agile passetto di danza a ritmo, mentre piluccava del cibo con le dita, dalla ciotola che teneva in mano.
“Ha l’aria di fare male.” Segnalò, riferendosi alle mie ferite sul petto. Rita stava aggiungendo vari fregi e decorazioni attorno al cuore.
“Le sarebbe bastato disegnare il simbolo di Maman Brigitte con la farina ma ha preferito farlo nella ciccia. Brutto affare: ti vuole far diventare come tete de mort.” Indicò col bastone da passeggio verso il vecchio stalliere.



“Cloe, aveva cinquan’anni quando gli ha fatto la fattura e lui solo venti. Per lei il tempo ha smesso di trascorrere: tete de mort sta invecchiando per entrambi. Un po’ se lo merita; fa proprio schifo a suonare quel tamburo, comunque, fra tutti, non se ne salva uno. È una delle orchestre peggiori che abbia mai sentito: sono stonati, non hanno ritmo! Ma che vuoi pretendere, da gente a cui piacciono las Rancheras dei Mariachi.”



La signora aveva tracciato per bene il suo nome nel cuore e ora riempiva l’interno del disegno con una texture di fitti tagli diagonali.
“Sa il fatto suo; non c’è che dire.” Ammise lo sconosciuto. “Traccia il nome e poi lo nasconde: a prova di maleficio.”


“Ma tu chi sei?” Domandai tra un lamento e l’altro.

“Come chi sono? Le Baron! Però tu puoi chiamarmi papà Guede!”



Cloe afferrò un pollo che stava beccando inconsapevole ai suoi piedi; si avvicinò all’altare, sgozzò l’animale e ne disperse il sangue tra le croci bianche.
“Ah, finalmente; adesso sì che ragioniamo.” Disse papà Guede.
Un suono sincopato di percussioni e maracas, prese lentamente corpo diventando poco a poco quasi assordante; l’aria si riempì d’elettricità statica e il beccamorto prese a ballare con maggior foga.
“Li senti, di’, li senti? Cloe si è portata da Haiti i resti dei migliori percussionisti Vudù di tutti i tempi.” Assicurò, esibendosi in paio di perfette giravolte.
“Così, sto passando questo calvario perchè lei non vuole invecchiare?” Chiesi incredulo.



“Intendiamoci bene, questa è una possessione, ovvero, sarai assoggettato al volere della tua signora; cosa ne farà di te dipende da lei: è una psicopatica sicché vai a sapere. Tete de mort è completamente succube di Cloe e, oltre a darle la vita, l’accontenta in ogni suo desiderio. È il suo servo insomma; si sta facendo vecchio, però, e la baldracca presto si cercherà un’altra vittima. Povero Tete de mort.”


Rita aveva finalmente finito d’intagliarmi. “Con chi stai parlando, amore?” S’informò.

“Papà Guede.”
Cloe e la signora si guardarono soddisfatte e un po’ stupite. “È dotato, molto dotato.” Ammise la cameriera.
Baffo e pizzetto mi aiutarono a rialzare per poi sbattermi a sedere, in malo modo, su una sedia. Continuavo ad essere legato, mi passarono le braccia dietro lo schienale e mi assicurarono stretto alla sedia con un’altra corda.
Cloe versò del liquore a terra, su di un disegno a croce.
“Ron nero cubano.” Disse papà deliziato. “Dio quanto mi piace ‘sta broda.”
Cloe cominciò a recitare delle preghiere nel suo gergo strano. Capii solamente che chiamava “Le Baron Samedí.”
“Le Baron c’est moi!” Esclamò Papà Guede. “È ora di fare un po’ di teatro. Tu non ti preoccupare; ci penso io a ‘sti zotici.”
Sentii il beccamorto scivolarmi dentro; era una gelida sensazione strana: papà aveva preso il controllo ed io ero seduto in panchina ad assistere la partita.


“C’è qualche figlio di un azteca disposto a darmi da fumare?” Domandò allegramente attraverso la mia bocca. Gli accoliti della Mara si affrettarono a porgermi i pacchetti delle sigarette. Il barone valutò l’offerta. “Nessuno di voi straccioni fuma marlboro? Non ci posso credere.” Mi fece dire disgustato. “Stalliere del malanno! tu fumi Winston, guarda che lo so: forza tirane fuori una.” Poi si rivolse al baffo: “E tu, testa di cazzo, dammi i tuoi occhiali da sole, che la luce mi da fastidio.”



Gli appartenenti alla gang si misero in fila e uno dopo l’altro mi rivolsero delle domande.
“Baron, dimmi ti prego, qualcosa sul mio futuro?” Domandò il primo.

“Quale futuro? Hai già un piede nella fossa. Ti consiglio di cambiare mestiere e sopratutto le amicizie. Sparisci!”
Poi fu la volta di una donna che domandò un buon numero della lotteria. Il Barone le diede un numero vincente. “Della lotteria di Haiti, però.” Mi fece sapere strizzandomi l’occhio.
Un altro le domandò a proposito della salute della mamma. “Tua madre è morta ieri di crepacuore. Tutto merito tuo, ovviamente. Levati di torno adesso, prima che mi venga voglia di farti venire la dissenteria per sempre.”
Il baffo domandò quando avrebbe rivisto la sua terra. “Presto, molto presto, rivedrai la terra.” Assicurò il Barone. “Dalla parte delle radici, beninteso.” M’informò.


Vi furono diverse domande. “Una più stupida dell’altra.” Fece notare papà. “Possibile che non abbiate alcuna inquietudine sulla vostre esistenze inutili?” I chicanos si guardarono senza capire.


“Lo supponevo. Va bene, levatevi di torno ora, che c’è un unione da celebrare.”
Cloe versò del Ron sul mio petto. Il barone uscì dal mio corpo e si sedette alla mia sinistra. Nel frattempo, venuto chissà da dove, comparve un ghepardo sulla scena. Fece un paio di giri rapidi tra i presenti, poi venne da me; mi poggiò le zampe anteriori sulle ginocchia, annusò un poco, passò la grossa lingua rugosa sulle mie ferite, e infine andò ad accucciarsi ai piedi del Barone.


“Ecco la mia Brigitte!” Annunciò lui, carezzando l’animale.
La signora venne oltre, si tolse il camicione e rimase completamente nuda, guardandomi seria. I tamburi tenevano ora un magico ritmo lento e ipnotico.
“È una bella donna, di quelle per cui si può perder la testa.” Ammise il Barone. Certo che morire pur di compiacerla…
Il ghepardo scomparve di un balzo nel corpo della signora. La posseduta vacillò e si lasciò andare rigida tra le braccia di Cloe che la sostenne, impedendole di cadere all’indietro. Le pupille scomparvero quasi completamente sotto le palpebre; scoprendo il bianco degli occhi.
“Questa è un’enorme cattedrale, gelida, oscura e disabitata.” Proclamò una calda voce creola attraverso le labbra della Signora. “Detriti, putrefazione, sregolatezza: le tracce dei demoni; ovunque. Non ho mai visto niente di simile.” Assicurò infastidita.

Cloe aprì una valigetta, di quelle che mantengono al fresco gli organi per il trapianto, e ne estrasse una orrenda collana con cinque dita, intercalate da due bulbi oculari. La cameriera la mise al collo della signora.
“Papà, questi sono riti esecrabili!” Esclamò Brigitte.
Il Barone annuì convinto, senza dire nulla.
Cloe fece sedere la posseduta a cavalcioni sulle mie gambe, prese una borsa di sangue dalla valigetta, l’aprì e ne versò il gelido contenuto su di noi.
“Me ne vado! Non voglio assistere a quest’abominio.” Annunciò la voce proveniente dalla bocca di Rita.
La signora ritornò in se; Brigitte l’aveva lasciata ed era scomparsa.
“Ti ha rifiutata ma non importa, non abbiamo bisogno della sua benedizione. Continua da sola: le cheval il te pertienent dejiá.”


Rita mi guardava, ora, con occhi risoluti e pieni di desiderio; avvicinò il suo volto coperto di sangue al mio, cercò la mia bocca e io ebbi l’impulso di evitare i sui baci.
“Ti capisco, vorresti sfuggirle, ora, ma non puoi; ti tiene in suo potere ormai.” Assicurò il Barone.
La signora mi afferrò per i capelli, obbligandomi a girare la testa e accettare i suoi baci; si strinse contro di me sfregandosi in modo irresistibile. La sua pelle impiastricciata di sangue scivolò lentamente sulla mia.
“Ti ha soggiogato, fin dalla prima volta che l’hai vista, e tu non hai fatto nulla per sfuggirle; sei pazzo di lei.”


Rita mi carezzò il collo, mordicchiò l’orecchio, le labbra, e ben presto non potei fare altro che rispondere ai suoi baci incendiari; le succhiai i capezzoli, lei s’infilò la mia erezione e prese a cavalcarmi a fondo, con forza. “Mon cheval, pour toujoure. Il mio cavallo, per sempre.” Mormorò. Era bagnata fradicia e rovente come un forno.

“Tu l’adori, perchè t’illudi che sia la Dea che ti libererà dal dolore dell’esistenza, e lei non aspetta altro che accontentarti, ma ricorda: non è una Dea, è solo umana; proprio come te. E nessun umano è meritevole di togliere la vita ad un proprio simile.”
Rita mi mise una cintura attorno al collo e prese a stringere, lenta e inesorabile. “Hai paura?” Mi sussurrò all’orecchio.
Annuii. Sentivo mancare il respiro e il cuore battere impazzito.
“Però mi ami, non è così?”
Baron Samedí era scomparso ma io continuavo sentire la sua voce risuonare nella mente.
“Non confondere il desiderio di pace, con la morte. La morte, conduce alla pace ma non si devono precorrere i tempi, bisogna essere pronti per riceverla.
“Dimmi che sei disposto a tutto pur di compiacermi.” Sussurrò la signora ansimando e cavalcando sempre più rapidamente. Non avrei potuto certo risponderle. Stringeva con forza, tirando dalla cintura. Lo faceva poco a poco, lentamente; avrebbe atteso il momento dell’orgasmo per darmi la stretta finale.
“Bisogna vivere, sforzandosi di migliorare e comprendere le ragioni dell’esistenza; solo questo può aiutare a trovare un po’ di serenità.” Continuò il Barone. Sentivo la sua voce e il frastuono dei tamburi, sempre più lontano.
Avevo la vista e i sensi annebbiati; ormai passava sempre meno ossigeno e sangue nella morsa.
“Non puoi liberarti dalla mia stretta, stavolta.” Disse Rita con la voce rotta dal piacere. “Non puoi muoverti, non puoi difenderti; sei inerme tra le mie mani.”
Stava raggiungendo l’orgasmo e ora mi strizzava con tutte le energie.


“Ah se solo avessi la forza da stringere il collo così forte, da mandartelo in poltiglia.” Sibilò.
Non vedevo più, la pressione era tanta da darmi l’impressione che mi stesse scoppiando il cervello.
“Vengo Manuel, brutto figlio di puttana!” Urlò la signora in preda a un piacere prossimo alla follia. “VMe ne vengo! Sognando di separarti la testa dal corpo.”



L’oscurità sopravvenne e cancellò ogni tormento. Se questa è la morte non è poi così male. Considerai. Finalmente mi lasceranno in pace, adesso.
“Niente da fare; non ti ha ucciso… Te lo avevo detto. Per un po’ si divertirà col suo nuovo giocattolo. È così fin da che era bambina: non ha mai lasciato una bambola con la testa.” Assicurò Papà Guede. “Dovrai lottare, dunque, con tutte le forze se vorrai sfuggirle; non ti resta molto tempo: si annoia presto, la signora e quando sarà stufa…”

Frammento da Non Serviam di Luca Della Casa. (prima stesura)