Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Il rito - Terzoquartodiluna

sabato 31 maggio 2014

Il rito - Terzoquartodiluna

Prossima ormai a posizionarsi nel centro esatto del cielo, la luna oltrepassò lo stipite superiore della persiana, sottraendo così la stanza dal suo cristallino bagliore. Adonide lanciò un’occhiata oltre il vetro opaco, continuando a sfogliare distratta il libro posato sulle sue ginocchia. Era giunto il momento. Sospirò malinconica al pendolo. Di lì a poco, sarebbe scoccata la mezzanotte. Non serviva controllare l’ora per saperlo. Richiuse la spessa copertina di cuoio consunto, avvolgendola con cura in tre giri di nastro vermiglio. Poi, quasi per infondere coraggio al proprio animo sparuto, strinse sul petto il massiccio volume e si alzò di scatto. Noncurante dello scialle di lana cadutole ai piedi, attraversò la stanza e raggiunse la finestra, la fronte premuta sul vetro, gli occhi rivolti alle stelle. Lei era là, la pallida Selene, unica amica foriera di conforto, nelle notti torride di desideri inespressi. Doveva affrettarsi. Poco era il tempo di cui disponeva. Se si fosse attardata, avrebbe perso l’unica occasione di porre fine al supplizio, di rimediare a tutto il male causato. Senza distogliere lo sguardo dal cielo, abbandonò la presa sul libro. Lo udì compiaciuta scivolare nell’aria, per posarsi docile sopra la seta del tappeto. Allora, animata dalla premura di compiere l’arcano proposito, raggiunse a passi rapidi la porta e imboccò le scale. Attraversò i corridoi del primo piano avvolta dalla penombra, eterea e impalpabile come una divinità ctonia. Indifferente ai crepitii sinistri dell’antico mobilio, avanzò sinuosa fino all’ingresso, mentre la sua mente sospesa ripeteva in un mantra le parole del rito. Gemiti soffocati sibilavano dalle stanze deserte, stridendo nell’aria come le note di un violino scordato. Serrò i denti. Non avrebbe prestato orecchio alle rimostranze dei Lari. Ormai aveva deciso. La notte era giusta. Avrebbe liberato la casa e con essa lo spirito costretto dal suo infame sopruso. Assecondare il proprio desiderio non era più motivo di gioia. Certo, le era servito del tempo per capirlo. Tre volte il Sole aveva attraversato le dodici costellazioni, prima che lei potesse maturare il saggio proposito. Ma ora tutto le era chiaro. Se solo avesse socchiuso le palpebre, senza sforzo avrebbe potuto scorgere i piatti della bilancia pendere irrimediabili verso al baratro in cui era discesa. Da una parte, il lieve conforto della presenza a lei cara. Dall’altra, il triste destino a cui aveva dannato il suo amante. Il limbo eterno. Tante volte, sdraiata nell’erba, selvaggia tra gli alberi, aveva contemplato la rugiada stillante sugli aghi di pino. Dense gocce pesanti erano le lacrime prodotte dal suo sortilegio. Ma ora comprendeva quanto il suo desiderio fosse frutto di un animo indegno. Ora conosceva l’unico rimedio: sciogliere il lacci che trattenevano l’uomo nella sua vivida casa. Scacciati dalla mente i tristi pensieri, fece scivolare la veste di mussolina sulla pelle bianca e nuda varcò la soglia. Sollevò la fronte alla luna. Quella era la notte giusta. S’inginocchio tra i fili del giardino umidi di notte, protetta dalle rosee fronde dell’acero. In quel modo, gli sguardi indiscreti dei rapaci notturni non avrebbero interrotto l’intensa preghiera. Prese a sviluppare un fagotto poco ingombrante, sul terreno morbido di muschio, gli occhi già umidi di commozione. Uno. Un brivido ascendente come una carezza audace percorse la sua pelle di porcellana, mentre, puntellando le nocche nell’humus, si alzava da terra. Percorse un giro intero intorno all’arbusto, sfiorando il suolo con la punta del dito, il sale in qualità di sigillo, una litania per invocare soccorso. Era necessario curare ogni dettaglio, per ottenere il risultato sperato. Per questa ragione aveva portato con sé due candele. Rossa come la passione, nera come il suo animo. Si fermò in mezzo al circolo e giunse le mani al petto. Raccolse le energie necessarie, domandandosi intanto se non fosse la sua volontà a rischiar di venir meno. Due. Gli occhi fissi nel vuoto, prese a mormorare parole al vento, così da interpellare gli spiriti benevoli. Una fitta nel cuore, poi, la vista annebbiata. Era la paura a causarle dolore: una volta pronunciato l’incanto, non ci sarebbe più stato spazio per i ripensamenti. Lui se ne sarebbe andato. Liberato dal giogo, sarebbe fuggito alle stelle e non sarebbe tornato mai più. Immaginò la sua casa divenuta silenziosa. Le finestre spalancate ai crepuscoli estivi, le lenzuola composte sul letto. Nessun sospiro, nessuna malia. Le notti sarebbero state semplici notti, il sonno, confortevole oblio. Tornò con la mente ai sussulti improvvisi. Il volto amato impercettibile nel sogno, il tocco della sua mano leggero come un battito d’ali. A questo stava rinunciando. All’amore potente che l’aveva piegata, al sentimento più forte che un cuore fosse in grado di contenere. Maledisse rabbiosa l’indole docile che non credeva di avere, poi, stretto il cartiglio tra le dita, prese a recitare il rituale. Attese in silenzio. Non passò molto tempo prima che una brezza effimera s’insinuasse nel lucido corvino dei suoi capelli. La percepì vorticare sulla fronte, per poi scivolare fino alle caviglie. Soggiogata, mosse un passo nel buio e l’alito di vento si condensò in un’ombra dai contorni imprecisi. Cadde sulle proprie ginocchia. Lui era lì, una nebulosa fluttuante di pallido vigore. Lo scrutò baluginare nell’ombra e si augurò che potesse comprendere l’onestà del suo gesto. Protese una mano verso di lui. Rapita, perlustrò la sua materia sottile, labile effige delle notti d’amore. Quello era il momento. Il momento giusto per liberarlo dal vincolo imposto. Doveva lasciarlo andare. Doveva permettergli di compiere il corso e raggiungere infine l’equo riposo. Così accadeva per tutti, così sarebbe stato anche per lui. Nonostante l’amore, nonostante lo strazio al pensiero di non averlo mai più. In cerca di coraggio, puntò gli occhi al terreno e sgretolò una zolla nel pugno. Tre. Magnifica creatura inconsapevole del proprio cuore, Adonide slanciò le braccia bianche al cielo, il viso contratto nello sforzo. Come una novella Erinni, gridò rivolgendosi al Cosmo, sperando di essere udita. Lo vide danzare in una fiaccola incerta, per poi crepitare in un rogo abbagliante. Seguì il percorso della sua forma sottile, mentre, indirizzato dalle parole, solcava lo spazio e raggiungeva il firmamento. Tutto era compiuto. Morse una mela per chiudere il cerchio, la speranza di poter ricordare come unico conforto. Decise di non accostare le imposte, quella sera. Immobile sotto le lenzuola, abbassò le palpebre e pregò che l’oblio sopraggiungesse veloce. Presto i sogni la presero per mano. Annebbiarono la sua mente, sbiadirono i ricordi. Fu il verso di uno stornello a cullare il suo sonno. Nascosto tra i rami, il piccolo uccello dalle piume screziate cinguettò tutta la notte parole d’amore. Cantò per la povera Adonide, donna infelice dal nome di fiore.

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