Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Quando la pazzia diventa poesia è #LessIs Sexy - Francesca Ungaro

lunedì 26 maggio 2014

Quando la pazzia diventa poesia è #LessIs Sexy - Francesca Ungaro

C’è una passione che è cresciuta con me: la pazzia. La pazzia diventa poesia?

Ho iniziato come tirocinante, al secondo anno di università e curare la pazzia è ciò che più mi appartiene. Per qualche ragione, sono innamorata della pazzia. Perché?

La pazzia ha un sottile limite con la poesia 

È la poesia delle persone che non possono fingere ma che non capisci mai del tutto. È la poesia di chi puoi sostenere ma non pensare di salvare. Perché la sostenibilità si limita alla cura.

La mia prima mattina in ospedale psichiatrico cade in un lontano settembre. Entro, mi siedo, aspetto il supervisore. Un omone, grande e grosso, mi guarda turbato: si dondola a sinistra e a destra come a rassicurarsi. Forse a dirsi che va tutto bene anche se una ragazza sconosciuta si è seduta di fronte a lui. Resiste poco e va a sedersi lontano. Mi trema il cuore vedere quel corpo potente dondolare su se stesso per calmare i nervi.

Dal giorno seguente, ogni mattina, alle nove sono nella cucina dell’ambulatorio. Qui s’incontra l’equipe medica per la discussione dei casi clinici. Odore di caffè riscaldato mescolato a storie dure. Lo psichiatra responsabile del centro parla regolarmente coi piedi sulla scrivania, dondolandosi sulla sedia.

Che differenza c’era tra il suo dondolio e quello dell’uomo in corridoio che ieri aveva pauradi me? Ecco la mia prima lezione: la differenza sta nell’intensità del bisogno. L’impellenza e lanecessità di gesti che, da casuali, diventano sopravvivenza fisica e mentale. Qualcosa di indispensabile per evitare che i pensieri si spezzino.

Il gigante buono del corridoio è il mio primo paziente.

Ascanio, duro come l’asfalto, granitico come è l’autismo. Ascanio odia il fumo e chi lascia a terra le sigarette. Per cui lo vedi in cortile a raccogliere i mozziconi e a strizzarli. Poi te li mette in mano, come fanno i gatti col topo agonizzante fieri dell’impresa.

Il mio secondo paziente, Gianluca, è costantemente in lacrime. La prima volta arriva piagnucolando perché il padre l’ha picchiato e, in effetti, qualche segno sulla guancia ce l’ha. La settimana dopo, però, il padre è morto. 
Poi muoiono zii, cugini e perfino il fratello. Rimane solo la madre: è muta.

Quando una sera vedo padre e fratello ad aspettarlo, capisco il motivo di tutte quelle morti. Poesia nera, quella di Gianluca: ammazzo chi mi fa male.

Il più giovane dell’ambulatorio diurno è Umberto: capelli nerissimi e occhi sgranati come acini d’uva. Soffre di una psicosi mistica: stringere rapporti con le persone fa esplodere in lui il senso del peccato. È simpatico, mi ruba il motorino ogni mattina e lo riporta con il serbatoio pieno. Prende una cotta per me. Una cosa innocente, sufficiente a ricacciarlo nella malattia. Mi tolgono l’incarico, quando lo incrocio vedo ancora i suoi occhi neri che mi guardano dentro e oltre.

Quanto si può essere insostenibili senza volerlo?

Arrivo a Francesca, allegra e ossuta vecchietta, 78 anni, una diagnosi di schizofrenia, si veste sempre di bianco, in pizzo e macramè. Poetessa fin da bambina, scrive a matita su un quaderno a quadretti. «Peccato – dico un giorno -, se avessi usato la penna si leggerebbero ancora le poesie della gioventù». Mi zittisce.

La poesia va e sceglie di fermarsi dove vuole.

«Le parole vanno e vengono, non farci caso», continua. «Anche io una volta mi chiamavo Francesca, proprio come te!».

La poesia respira e si fa respirare, va e viene! Mi fermo. Spazio alla tua voce: sono riuscita a farti sentire quanto la poesia è forte dentro alla pazzia?

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