Dov’erano mai le sterminate praterie di cui leggeva nei libri? Forse erano tutte favole, invenzioni. Non esistevano né erano mai esistite, come le fate, i maghi, i folletti.
I suoi compagni di classe lo prendevano in giro. Dicevano che era all’antica, che era nato nel secolo sbagliato. Che non capiva il progresso. Come poteva non ammirare le meraviglie dell’informatica a cui loro non avrebbero rinunciato per niente al mondo, e le possibilità che essa offriva di inventare giochi e di scambiare messaggi e programmi con ragazzi che abitavano lontano, anche al di là dell’oceano? Cos’era mai una prateria? Bastava fare un doppio clic sulla parola nell’enciclopedia ipertestuale per vederne l’immagine: una distesa d’erba e di terra. Niente in confronto a un computer con il quale viaggiare dovunque sulle strade della Rete.
Con il passare del tempo Lapo si era convinto che davvero in lui c’era qualcosa di sbagliato, e, incapace rimediare, si chiudeva sempre di più in se stesso. Trascorreva da solo quasi ogni pomeriggio, faceva lunghe passeggiate festeggiando nel pensiero ogni piccolo ciuffo d’erba tenace nato fra una pietra e l’altra del selciato, nonostante il calpestio di piedi e ruote e l’ombra quasi perenne degli alti palazzi che nascondevano il sole.
Si fermava a lungo a osservare gli uccelli che avevano trovato rifugio in città; si immalinconiva per i guinzagli e le museruole dei cani che incontrava; ammirava la leggerezza con cui i gatti si muovevano, e temeva per loro i pericoli cittadini. Anche quegli animali, pensava, di certo sognavano le praterie sconfinate.
Ma quelli che sentiva più vicini in questo suo desiderio erano i cavalli, che, legati alle carrozze, erano costretti a portare qua e là i turisti. Il risuonare dei loro zoccoli sul duro dell’asfalto era un lamento. Loro sì che erano nati per galoppare nelle vastità che Lapo sognava. Loro sì che lo avrebbero capito, se solo avesse potuto dirglielo, se solo avesse saputo parlare il loro linguaggio.
Non è che non amasse la sua città. Vi era nato e da sempre era il suo orizzonte. Ma non gli bastava. Doveva esserci qualcos’altro. Oltre i palazzi e le chiese, le strade, le auto, i treni. Qualche luogo in cui si sentisse forte la fragranza dell’erba, quella fragranza che lo sfiorava talvolta per un breve istante quando costeggiava un giardino appena tosato. Un attimo e poi quel profumo veniva subito soffocato dall’odore della metropoli: gas di scarico, polvere, rifiuti.
Un pomeriggio, mentre il sole iniziava la sua discesa verso il tramonto, Lapo camminava a testa bassa per le vie del centro; i turisti lo urtavano, ma lui continuava a guardare in giù, spiando i rari fili d’erba. Mentre passava accanto a una delle carrozze ferme nella piazza, sentì una voce, bassa ma distinta:
“Io lo so dov’è.”
Si guardò intorno, ma lì vicino non c’era altro che il cavallo. Un cavallo pezzato bianco e nero, che scuoteva il collo e la lunga criniera. Il cocchiere doveva essere in quel gruppetto di uomini accanto al marciapiede che parlavano gesticolando di calcio.
“Io lo so dov’è.” Ripeté la voce, mentre il cavallo con il muso gli sfiorava un gomito. Lui osservò la bestia, cercando di incontrarne lo sguardo al di là del paraocchi.
“Io so dov’è la prateria. Se mi liberi da questi lacci ti ci porterò.”
Il cuore di Lapo sobbalzò. Era il cavallo, era lui che gli parlava. Non ne fu spaventato e neanche stupito. Si sentì inondare da una luce calda: ciò che aveva sempre sperato era vero: fra loro esisteva un linguaggio comune, potevano parlarsi, si capivano.
“Come faccio?” Gli chiese. Sembrava legato bene alla carrozza.
“È facile. Basta che slacci la cinghia sotto la mia pancia.”
Lapo non si curò di controllare se qualcuno potesse vederlo, solo una cosa importava: liberare il suo nuovo amico. Fece come l’altro gli aveva suggerito. Il cavallo mosse piano una zampa e soggiunse:
“E adesso questa intorno al muso.”
Lapo eseguì. I paraocchi scivolarono a terra insieme alle briglie. La bestia girò la testa a destra e a sinistra, con aria soddisfatta, annusando profondamente.
“Sali” gli disse ancora.
“Sei troppo alto.”
“Appoggiati alla mia schiena e salta.”
“Non ci riuscirò mai.”
“E la prateria? Vuoi forse restare qui e lasciarmi andare da solo?”
No, questo mai. Non poteva rinunciare. Poggiò le mani sul dorso del cavallo, fece un respiro profondo e si dette una spinta verso l’alto. Fu in groppa. Era stato davvero facile.
“Se tu corri io cadrò.”
“Stringi le gambe contro i miei fianchi e tieniti alla mia criniera.”
Aspettò che Lapo si afferrasse a lui poi partì: un passo, due, al trotto. Si udì un grido. Era il cocchiere:
“Al ladro! Al ladro! Il mio cavallo!”
Il cavallo prese a galoppare, Lapo stava saldamente in sella, era così semplice, bastava assecondare i movimenti del suo amico, tenere lo stesso ritmo. Imboccarono la strada principale che partiva dalla piazza, mentre le urla del cocchiere si mescolavano a quelle dei passanti impauriti.
D’improvviso da una via laterale sbucò di fronte a loro una macchina della polizia. Lapo pensò che l’auto li avrebbe investiti, il cavallo sarebbe caduto e si sarebbe fatto male, e tutto per colpa sua e dei suoi desideri assurdi.
Chiuse gli occhi aspettando l’urto. Ma l’urto non ci fu. Lapo stupito si fece coraggio e si guardò intorno: l’automobile, la strada e la gente si trovavano ormai alcuni metri sotto di loro. Stavano volando. Credendo di sognare si pizzicò forte un braccio. Il dolore lo rassicurò sulla realtà di quanto stava vivendo.
Ben presto furono sopra i tetti, mentre le grida di meraviglia della folla si udivano sempre meno e le persone diventavano puntini sempre più piccoli. Lapo, dimentico della paura provata, si godeva gli ultimi raggi del sole.
“Tutto a posto?” Gli chiese il cavallo.
“A posto.” Rispose lui.
Fra breve avrebbero corso in una prateria.
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