Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Sandrino Slow Food - Adelaide J. Pellitteri

giovedì 13 marzo 2014

Sandrino Slow Food - Adelaide J. Pellitteri

Tema: Bere Mangiare Scrivere

Sandrino era ormai grande. Da due giorni, infatti, per sedersi non doveva più aggrapparsi alla spalliera della sedia e neppure fare leva sul ginocchio. Nonostante ciò sua madre gli propinava ancora la solita minestra, insipida e incolore. Un bicchiere d’acqua completava il suo menù, e aveva poco da frignare e scalciare. Fin dai primi mesi di quella vita orrenda aveva provato a sputacchiare l’impiastro che gli rifilavano giorno dopo giorno. La donna glielo inforcava, per altro, con l’insopportabile vocina di un’ebete incallita: «Mangia che diventi grande, mangia che diventi grande…» Di diversa idea era Sandrino. A saziarsi con quelle porcherie c’era da crescere già esauriti, schizofrenici e neppure tanto in carne. Trota omogenizzata, cremina di riso, pera cotta, potevano mai essere chiamate cibo? A quell’età un paio di cose già gli frullavano in testa. La prima era che non voleva diventare come suo fratello, ovvero tale e quale ad uno stoccafisso, mentre della seconda, non tutto gli era chiaro perché, neanche lo sapeva, ma ci stava lavorando alacremente. Dal piano di sotto, appena Sandrino si metteva a tavola, con una puntualità inverosimile, cominciavano ad arrivare profumi a dir poco inebrianti. Odore di spaghetti alla carbonara o minestrone contadino, zucca in agrodolce o stinco di maiale, poi… quello che lo faceva andare proprio in visibilio era il profumo di salsicce e patatine fritte.

Irresistibili fragranze convogliavano dentro quella stanza neanche fosse stata la canna fumaria di una trattoria! Non è che conoscesse il nome di ogni singola pietanza, quello lo andava apprendendo di giorno in giorno con le lamentele di sua madre. “Che puzza di stinco di maiale al forno, ma quanti grassi ingurgitano questi con la carbonara, non lo sanno?” Lei secca come uno scalogno doveva essere donna di poca fantasia, abitini grigi e sagomati la facevano sembrare una sogliola bollita. Della casa di Sandrino, dunque, l’amore per la buona tavola non era certo il tratto distintivo. Monocromatiche insalate e pasta lessa erano il piatto forte e meglio conosciuto. Intanto l’odore, che veniva da quell’appartamento, entrava per il naso di Sandrino stuzzicandogli le vie dell’acquolina. Il tavolo, allora, gli si trasformava sotto gli occhi diventando uguale a quello che sua nonna preparava per le grandi feste; con tanto, ma tanto, tanto cibo, da poterci saziare i leoni del Circo Moira Orfei. Sandrino, con i suoi occhietti vispi, vedeva fumanti sformati, ragù succulenti…, sembrava cibo che potesse toccare con le mani, addentare con passione, materializzatosi lì-lì grazie a una magia. Con la forza del pensiero gustava ogni pietanza passandosi, infine, la mano sul pancino, fingendo la soddisfazione di un vero buongustaio. Per sopravvivere, non aveva trovato altro rimedio se non quello della fantasia, puntando tutto quanto sul futuro. Ad ogni pranzo o cena, spuntino o colazione non faceva altro che pensare che prima o poi le cose sarebbero cambiate. Non aveva certo cognizione del come né del quando. Non sapeva, ancora, tante e tante cose. Non poteva nemmeno immaginare che il seme dei grandi sogni s’impianta così dentro una testa che funzioni e che a quel sogno, la sua testa, stava già lavorando alacremente. Trent’anni appena ed avrebbe aperto il suo primo ristorante, abbracciando il concetto di slow food.


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