Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: L'assenza - Gianluigi Capuani

martedì 25 febbraio 2014

L'assenza - Gianluigi Capuani

L’odore dei boschi della mia terra è diverso da quello del mare, mentre quello della pioggia che mi punge il viso è sempre lo stesso. Sono tutti sotto coperta a ripararsi dalla tempesta o a cercare di dormire e io, sono sul ponte a sfidare l’oceano. Voglio arrivarci in Canada solcando questo mare imbizzarrito.
Tra un balzo e l’altro che mi lancia lo stomaco in gola, mi volto e guardo verso il capitano lassù. E’ immobile mentre tiene saldo in mano il timone. Ho quasi l’impressione di scorgere i suoi occhi azzurri che brillano sotto la tesa del cappello. Una sagoma appena annunciata dalla fioca luce degli strumenti in mezzo alla burrasca.

Ecco la mia vita bagnata che si regge alla balaustra. Ogni folata di vento mi porta in bocca il sapore del sale mischiato alla pioggia e questo nutrimento è la miglior tisana per darmi il giusto coraggio e affrontare il viaggio.
Sono passati solo trentacinque giorni dalla partenza, ma a me sembra un’eternità che non si consuma mai. Rivedo la passerella su cui sono salito con altri disperati in cerca di speranza dall’altra parte del mondo. I loro parenti con i cappelli in mano a salutare e un posto vuoto in mezzo alla folla, quello dell’unica persona che avrei voluto vedere e che non c’era per mandarmi un bacio da lontano. E’ un’assenza che non ha odore, solo un colore grigiastro che si imprime sulla retina e spegne ogni brillantezza del mondo. Sono partito vomitando la solitudine che mi schiaccia e l’unico rifugio possibile è quello dei ricordi.

Gli odori di sudore intensi e i sorrisi sdentati, le braccia muscolose dei miei genitori sono ciò che è rimasto impresso nel cuore di bambino. Ho sempre amato andare a scuola mentre loro si spaccavano la schiena in campagna.
Quando penso alla dura lite con loro per frequentare la scuola media sorrido. Dicevano che c’era tanto da lavorare e non si poteva perdere tempo con cose che non mi sarebbero mai state utili.

“Lavorerò di notte e andrò a scuola la mattina”, dissi. E mi lasciarono fare, stupiti di tanta tenacia.
I libri. Quelli che leggevo di nascosto prendendoli in prestito dalla biblioteca, che compravo con i risparmi che gli altri usavano per i dolci e il cinema, che mio padre guardava con sospetto e per i quali diceva che mi sarebbero venute gobba e occhiaie. 
Ma io amavo sapere. Il campo di terra arata, il paese con la chiesa al centro e i quattro compari alla sera non mi bastavano. Non riempivano mai un buco al centro della pancia.

Guardo in basso la chiglia. La nave taglia in due il mare come un coltello affilato, non riesco a scorgere il punto in cui finisce il metallo e comincia l’acqua. L’orizzonte è scuro, diverso dai neri notturni della mia casa con le stelle a colorare la volta e i bagliori della Via Lattea a dare profondità al cielo. Ricordi lontani. Ho lasciato tutto il mio niente per partire. La morte ha tolto ogni possibilità di costruire qualcosa laggiù e se c’è qualcosa da fare bisogna farlo lontano.
Alla morte dei miei genitori sdentati, ho continuato a lavorare seguendo il loro esempio e ritagliando i miei momenti per leggere, scrivere, pensare.
In paese ero lo strano dei libri e degli occhiali. Quello che vive solo e senza una ragazza da corteggiare. I miei coetanei si sposavano, avevano figli, e io ero incapace di avvicinarmi agli altri. Ero troppo diverso ormai, materia difforme da quel genere umano così semplice e straordinariamente felice che mi circondava.
Vivevo in un mio mondo a parte, fino a quando vidi lei. Era la nuova maestra della scuola del paese, una ragazza che adorava allo stesso modo i ragazzini e la cultura prendendo e dando tutto quel che poteva, senza riserve. Eravamo in biblioteca. Mi sorpresi a osservarla incantato con la bocca aperta e già me la immaginavo con l’abito da sposa bianco venirmi incontro, con un prete e poca gente a festeggiarci.
Lei ricambiò il mio sguardo, sorrise e scherzò sui miei occhi che la fissavano come se avessero visto il diavolo.

“No, una dea!”, risposi io. Rise. E a me si allargò il cuore per non richiudersi più.
Era un fiume che ha riempito il mio buco in pancia tutto di colpo, come se  avesse aperto una chiusa. Ogni giorno con lei fu la scoperta di qualcosa da mettere in comune e regalare all’altro. Lettura, canzoni, silenzi stellati.
Ci sposammo. E fu come avevo immaginato quel giorno in biblioteca.

Un rombo improvviso mi riporta alla realtà. Un tuono potentissimo che ha spaccato in due il cielo. Ecco il lampo che rischiara un mare nero e tormentato fatto di tante facce sofferenti.
Rabbrividisco per il freddo. Il capitano non si è mosso dalla sua postazione, vigile e silenzioso è l’unico debole faro nell’assenza di colore della notte.
Davanti a me vedo, invece, i giorni colorati della gravidanza di mia moglie, i giochi per provare a scegliere il nome del piccolo o della piccola. Quel paesino e la campagna non mi parevano più così vecchi e stantii ora che ogni cosa aveva un odore nuovo.
E chi poteva sapere che la speranza è una fiammella di candela in una gola ventosa? Lei se ne andò in una notte di burrasca come questa, mentre cercava di dare alla luce il nostro bambino e intanto la morte si prendeva entrambi. Io, fuori alla porta della camera con le mani nei capelli e dentro le grida e i gemiti che durarono per ore. Infine la porta si aprì e due donne vennero fuori scure in volto. 
Se volevo potevo entrare, adesso. Ed entrai.
Era una notte come questa, ma il fragore delle onde non sono nulla rispetto alle mie grida e ai colpi che distruggevano tutto quello che trovavo in casa. Le donne chiamarono degli uomini per portarmi via.

Tornai a casa dopo qualche tempo, svuotato da ciò che aveva riempito il mio buco nella pancia e senza più voglia di cercare di riempirlo. Libri, casa, campagna erano lì, ad aspettarmi in silenzio.
Passavo la maggior parte del mio tempo su una sedia di paglia poggiata sul muro vicino alla strada. La polvere sollevata dalle rare auto stava imbiancando anche me.
Tanti anni trascorsi in silenzio su quella sedia, finché un giorno, senza un motivo specifico, mi sollevai e osservai la campagna. Poi fissai la casa bianca dei miei genitori e infine lo sguardo si posò sul paese. Vidi un mondo da bruciare e dal quale finalmente fuggire via.
Con una valigia semivuota e gambe indolenzite arrivai in città e poi al porto. Ti vidi di mattina presto. Bella, con tutto quel metallo levigato dal mare. Scelsi di imbarcarmi per sfidare il destino e ricucire il buco in pancia il più lontano possibile. In Canada, in questo paese sconosciuto posso ricominciare lontano dall’ assenza perpetua di lei.

Il capitano è sempre là, occhi azzurri caparbi che fissano il fondo nero della notte guardando oltre. Mantiene la rotta, l’ago della bussola che punta fluorescente a nord ovest.
Io stringo con più forza la balaustra, le nocche che si sbiancano per lo sforzo. Inspiro più che posso, alzo la testa e grido con tutta la forza che ho represso, lasciando uscire il veleno accumulato. 
Quando anche l’ultimo refolo di aria incamerata si dissolve nella pioggia, ritorno a guardare il mare, ansimante e liberato.
Ora guardo l’orizzonte scuro, che sembra così vicino da poterlo quasi toccare e poi cerco ancora il capitano che ha, mi sembra proprio di scorgerlo, un sorriso accennato agli angoli della bocca.
Respiro, il cuore frenetico è desideroso di tranquillità mentre qui, sul ponte, da solo, ancora solo, continua a piovere.
Per il momento.


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