Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Un Desiderio - Lorenzo Vargas

mercoledì 2 luglio 2014

Un Desiderio - Lorenzo Vargas

Pietro camminava nel parco ed insieme a lui, il cuore compiva il medesimo percorso, appesantito da sciami di pensieri che lo pungevano come insetti.
Il lavoro, la difficile cura di una relazione accettata per una questione di comodo ed i problemi in famiglia rendevano il suo passo pesante, le suole delle sue scarpe consumate solo sulla punta, come soffrisse di stomaco. Era appena tornato dalla visita a sua madre.
La madre di Pietro soffriva di demenza senile, riconosceva a malapena i volti ed aveva perduto gli ultimi vent'anni della sua vita insieme alle chiavi di casa. Non poteva sopportare di vederla in quello stato, lei che era sempre stata il punto fermo nella sua vita.
Anche lui, dalla malattia della donna, aveva deciso di lasciare indietro il tempo e manteneva nella mente l'immagine di sua madre come la donna che era stata: l'entità che possedeva tutte le soluzioni, che maneggiava problemi esistenziali come giochi d'enigmistica e che non aveva mai voltato le spalle al figlio, nemmeno in giorni in cui sarebbe stata una soluzione pratica affogarlo.
Pietro si era dimostrato debole.
Cresciuto nel tepore di sua madre non aveva soluzioni e nemmeno aveva sviluppato la stessa propensione per l'enigmistica. Fu per questo che, imboccata la via senza uscita della malattia, Pietro decise di nascondere il proprio dolore dietro le mura di una casa di cura, sopperendo, con più denaro di quanto si potesse permettere all'amore per sua madre.
Lo sapeva che i vecchi andavano lì a morire. Sperava che accadesse presto, sperava di non dover più sentire sua madre chiedergli come faceva ad avere la barba ad appena sei anni.
Si sedette sotto un albero e cominciò ad osservare sconsolato l'erba.
Vide un lombrico, grosso e carnoso, color della terra che si confondeva col prato.
Desiderava essere quel lombrico.
Con poche complicazioni, pochi bisogni primari.
Mangiare, dormire, riprodursi.
Desiderava essere quel lombrico che vedeva ogni giorno appassire le foglie, invece che veder marcire ogni secondo sua madre.
Il lombrico percorreva una grossa foglia di ficus e scorreva su una ruota infinita i propri impegni. Quel giorno aveva mangiato, avrebbe mangiato ancora al prossimo giro di ruota. Equilibrio innanzi tutto, mangiare solo ciò di cui si ha bisogno o si rischia di non poter mangiare ancora. Si rischia di essere enormi e satolli, soddisfatti senza poterlo essere mai più, preda facile della morte piumata.
Il suo cibo era anche il suo nascondiglio. Ogni foglia un pasto ed un tetto per sfuggire al pericolo. Anche quell'enorme animale che lo guardava con la sua brutta faccia pelosa, sarebbe potuto essere un ottimo nascondiglio, ma quei grandi animali erano cattivi. Finivano sempre per uccidere la sua gente per il semplice fatto di avergli camminato sopra.
Il lombrico sporse la propria testolina verso l'alto ed avvertì il vento, che solcava l'altro grande prato a cui non avrebbe mai avuto accesso, il cielo azzurro. Quanto avrebbe voluto pasteggiare con quell'erba bianca e soffice e chissà quali meraviglie gli riservava il magico mondo che solo la morte piumata poteva frequentare. Lui poteva solo strisciare e strisciare, pregare di non essere calpestato e strisciare ancora, alla ricerca del cibo che era condannato a spingersi in gola ad ogni giro di ruota.
Nel suo cieco trascinarsi, raggiunse l'albero e cominciò a risalirlo, nell'indifferenza del grande animale che lo seguiva distratto con lo sguardo. Da qualche parte intorno a lui sentì un bozzolo rompersi. Una nuova farfalla era nata.
Desiderò essere quella farfalla.
Leggera e libera di percorrere qualsiasi prato volesse, con occhi per pasteggiare delle colorate visioni attorno a lei.
Desiderò essere quella farfalla, mentre le ali della neonata meraviglia si spiegavano e trascinavano l'animale in giro per il vento.
La farfalla volò per il parco, ignara di un lombrico che sognava di lei.
Aveva ali di mille colori ed occhi tristi, perché conosceva il prezzo pagato per la propria benedizione.
24 ore e poi sarebbe morta. Il tempo di deporre delle uova, godersi un paio di fiori e nulla più.
Ma almeno poteva volare, continuava a ripetersi, poteva vedere con occhi diversi le cose che la circondavano e questo era un premio onesto, in cambio di una vita intera.
Non tutti, pero soffrono l'ingiustizia di dover barattare la propria vita per staccare i piedi da terra, pensò la farfalla.
C'è la morte piumata, che nasce già forte delle ali e la morte piumata non doveva lasciar andare il tempo pur di averle, erano sempre lì, dall'inizio, dandogli accesso ad ogni singolo anfratto del cielo per anni ed anni.
Desiderò essere la morte piumata, che non aveva solo un giorno per godersi tutta quella meraviglia.
Ma le farfalle non sono tutte fortunate allo stesso modo.
Un passero calò in picchiata, afferrando l'insetto con il becco e proseguendo la propria traiettoria.
Aveva un sapore delicato e polveroso. La ingollò senza troppa fatica e volò lontano dal parco, lontano dai grandi animali, lontano dalle bestie-che-abbaiano e si lasciò carezzare dal vento che con dita sottili gli scompigliava le piume.
Il passero conosceva la propria vita privilegiata perché poteva vedere quella del suo cibo. Piccolo ed insignificante, costretto a terra o a pagare con la vita, un unico giorno con le ali.
Il passero invece volava fiero, pieno di soddisfazione.
Sazio della sua settima farfalla in poche ore, l'uccellino volò al mare, poco distante, aggiungendo alle carezze del vento anche quelle dell'aria salmastra. Quella parte della spiaggia era poco frequentata anche dai grandi animali ed i gabbiani la battevano raramente.
Il passero si adagiò leggero su un pezzo di legno che galleggiava ignaro sull'acqua e subito si intristì, perché gli tornò in mente l'unica cosa da cui le sue ali non potevano proteggerlo: l'inverno.
Il freddo sarebbe arrivato di lì a poco e chissà che proprio il vento che lo carezzava non avrebbe inferto la stretta che l'avrebbe stecchito?
Il passero fece scattare la testa verso il basso al guizzo di un pesce che stava nuotando sott'acqua. Lui non sarebbe stato raggiunto dall'inverno, la sua vita sarebbe continuata indisturbata da tutto ed il gelo si sarebbe fermato alla superficie dell'acqua senza mai crinare le sue squame d'argento.
Nato nel cielo, l'uccellino guardava con molta più curiosità gli interrogativi che galleggiavano in acqua ed invidiò per una seconda volta il pesce che gli passava sotto.
Desiderò essere quel pesce, dimentico dell'inverno e con l'intera acqua del pianeta da attraversare ed esplorare, senza il terrore che qualche grande animale lo chiudesse in una gabbia di fili sottili, impedendogli di volare ancora.
Ignaro di tutto, il pesce nuotava sotto il pelo dell'acqua, senza conoscere il freddo e solo lievemente intossicato dallo sporco dell'acqua.
Era nervoso. Nervoso perché il mare era un buio pericolo senza ripari, dove altri pesci guizzavano paranoici alla ricerca di un pasto e nel tentativo di non divenire cibo a propria volta. I sassi del fondale erano coperti di alghe impalpabili, ma il pesce era già sazio e dovette tornare nolente al largo, in profondità dove animali più grandi aspettavano solo di farlo a pezzi.
Il pesce detestava essere piccolo, avrebbe voluto denti e artigli, squame spesse e dure, un muso minaccioso e crudele.
Ma nulla di questo gli era stato donato dalla Natura. Solo il destino di crescere fino a rendere impossibile la ricerca di un nascondiglio, vivere nel terrore, ogni giorno, di essere sgranocchiato.
I denti.
Li aveva in ogni momento davanti agli occhi e maledì che quei denti non fossero i suoi.
Desiderò di essere più grande e malvagio, capace di infliggere dolore e svellere le carni, in modo da impedire a chiunque di poter masticare le sue.
Desiderò di avere mille braccia e tentacoli e morte su ogni arto e desiderò che fossero i suoi denti affilati ad infestare gli incubi degli altri pesci.
Nelle profondità marine, però, i denti aspettavano, dormendo.
Chilometri e chilometri lontano dal sole, il Demone del mare trascorreva il suo sonno osservando ciò che accadeva sulla terra.
Egli era stato il più grande e malvagio, era stato i denti e le zanne e le mille braccia che avevano fatto della terra un deserto.
Nulla era stato più grande e magnifico della sua furia. Aveva cancellato civiltà dalla memoria e riportato l'uomo ad un tale stato di abiezione da fargli credere di averci messo milioni di anni per evolvere dalle scimmie.
Aveva cancellato Atlantide con un colpo di coda e ricordava con vibrante piacere le grida dei suoi abitanti, mentre affondavano nel vuoto invocando il loro Creatore.
Dopo millenni e millenni, il Demone dormiva in fondo al mare, poiché la sua natura lo aveva spinto a distruggere tutto ciò che c'era da distruggere, rendere polvere tutto ciò che in precedenza era altro e quindi lo aveva costretto al sonno, attendendo il giorno promesso per tornare ad infliggere infinito dolore.
Quel giorno era finalmente giunto ed i suoi mille occhi si dischiusero, godendosi il feroce pizzicare dell'acqua salmastra. Gli infiniti tentacoli si misero in moto e la mole immane risalì i chilometri che lo separavano dalla superficie.
Ma il grande Demone del mare, finalmente arrivato al giorno del suo risveglio, era ancora perso nel ricordo del suo sogno. Perso nel parco di una città, dove un uomo solo aveva mandato a morire sua madre.
Il grande Demone del mare era il dolore e le grida, la distruzione e la forza talmente grande da non aver bisogno di essere misurata, eppure provò invidia, poiché la Morte era la sua natura ed in fondo era troppo debole per allontanarsene.
Desiderò essere Pietro, seduto sotto l'albero, che in un mondo di infinita possibilità aveva mandato a morire la donna che lo aveva messo al mondo.
Desiderò essere Pietro, perché per scelta e non per natura, egli poteva operare il Male.

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