La signora sembrava aver perduto la gelida espressione indecifrabile e dal suo volto, più magro e tormentato di quanto ricordassi, traspariva il mutare d’innumerevoli stati d’animo, come nubi che correvano sospinte dal vento nel cielo in tempesta. Sorrise, si fece seria, sorrise di nuovo, ebbe una smorfia di scherno, poi disgusto; le sue labbra tremarono lievemente, accompagnate da un leggero tic all’occhio.
Sembrò sull’orlo di una crisi, ritrovò invece la calma, poi fu nuovamente travolta dai sentimenti e ricominciò da capo: sorriso, affettazione, disgusto, rabbia poi ancora il sorriso. Gli occhi, più d’ogni altra cosa, erano i testimoni del mistero che si occultava nelle pieghe del suo cervello bacato. Occhi terribilmente cupi e spaventosi, per momenti, oppure dolci… quasi estatici. Nell’oscurità del suo sguardo c’era ora una luce che non avevo mai visto, ancora più inquietante dell’oscurità stessa. Mi baciò sulla bocca, poi morse le labbra, tornò a scrutarmi, ad esaminare il mio corpo, passò la punta delle dita tremanti seguendo le cicatrici delle ferite sul mio corpo; sospirando desiderio, nostalgia e meraviglia. Mi baciò il petto, i capezzoli, poi cercò di nuovo le mie labbra; aveva gli occhi umidi, trepidanti, pareva volesse rintracciare in me quella devozione che non esisteva più. Volsi il capo per sottrarmi alle sue attenzioni. La signora si rialzò contrariata, molto contrariata… sul suo viso ritornò l’espressione severa e glaciale di sempre; girò una manovella e mi bloccò la testa, l’unica parte del corpo non ancora imprigionata. Morse nuovamente le mie labbra, a sangue stavolta. Gridai e lei mi diede un ceffone forte; il sangue mi colò dal naso, ne provai il sapore in bocca, nella gola. Era impossibile capire cosa le frullava per la testa… ma sapevo molto bene cosa sentivo io: paura, panico, il puro distillato del terrore. Buttava male! Ero imprigionato sul tavolo operatorio, circondato da macchine e apparecchiature: monitor per il controllo delle funzioni vitali, respiratore, pompa d’infusione. L’esposizione d’attrezzi chirurgici era ciò che più mi atterriva. L’acciaio di bisturi, forbici, pinze, divaricatori e seghetti risplendeva sotto la bianca luce accecante della lampada scialitica.
L’assassina si tolse la giacca, indossava un camice di lycra bianco aderente e lucidissimo, accomodò la cerniera lampo a metà seno, raccolse i capelli sulla nuca, infilò dei lunghi guanti lustri e neri che srotolò coprendo le braccia fin quasi sotto l’ascella, infine si mise un grembiule di PVC color antracite che ricordava quello dei macellai e lo allacciò in vita. Faceva con calma, valutando la mia paura accrescere incontenibile, secondo dopo secondo. Si dedicò a me, con perizia consumata, inserendo delle agocannule nella vena del braccio per l’infusione dei farmaci, e nell’arteria per la misurazione delle costanti vitali. Infilò dolorosamente un catetere nel pene per controllare la diuresi e infine m’intubò naso e bocca, senza troppi complimenti.
Rita si sporse su me sussurrandomi all’orecchio: «È arrivato il momento dell’Eutanasia! Ce la prenderemo comoda però.»
Il terrore esplose incontenibile, disperato; urlai, minacciai, pregai, dibattendomi come un forsennato, nell’impossibile tentativo di liberarmi. La signora si limitò a sorridere cupa riempiendo la siringa di un liquido che poi iniettò attraverso la cannula. In pochi secondi non riuscii più a muovermi, completamente paralizzato da chissà quale preparato. L’assassina mi divaricò le palpebre con congegni metallici per tenermi gli occhi spalancati; accese la strumentazione e nella sala risuonò il brusio del monitoraggio, i messaggi acustici delle funzioni vitali e l’ansimare del respiratore.
Rita poggiò il bisturi sull’attaccatura dello sterno sotto il collo e l’affondò, senza esitazione alcuna, nella carne. Mi resi conto, con orrore, che pur essendo paralizzato i miei nervi funzionavano ancora, restituendomi l’acutissimo dolore. Avrei voluto gridare forte ma riuscii ad emettere solo un penoso latrato dalla gola. Proseguì il macello, il bisturi scivolò lungo lo sterno, sentii la punta raschiare l’osso e poi scendere sulla bocca dello stomaco; più giù, fin quasi a raggiungere l’ombelico. Suonò l’allarme sul monitor: il mio cuore era impazzito, a quanto pareva.
«Siamo già in aritmia? Un omaccione come te…» Osservò Rita con derisione, ripulendo le ferite dal sangue con l’unità d’aspirazione. «Mi toccherà sedarti, solo l’indispensabile però, giusto per farti durare un po’.» Collegò un’ipodermoclisi alla cannula e versò nella bottiglia una mezza siringa di qualche maledetto farmaco dei suoi. Deragliai dalla via dei pensieri logici; ogni cosa divenne torbida e deforme come se la vedessi attraverso un grandangolo appannato. Il viso spietato della signora, la mia paura, l’ansito della strumentazione, la luce accecante, l’acciaio, il sangue e l’irragionevolezza degli eventi; tutto si confondeva e stemperava nel dolore.
***
Rita inserì il bisturi nella ferita, per staccare i tessuti dall’osso; spinse la lama a fondo, spiando in tralice il viso di Manuel, sfigurato dalla sofferenza e dall’orrore. Figlio di puttana! Come osava rifiutarla? Lo avrebbe tenuto sedato al confine dello spasimo, insopportabile, ma non fatale. Chi asseriva che i folli non si rendessero conto della propria follia sbagliava di grosso; lei era cosciente di essere una pazza assassina, anzi, assecondava la propria patologia, acutizzandola, giacché si era rivelata una fonte di piacere e potere enorme. La professione medica le aveva permesso di soddisfare i desideri più nascosti e rivelare nuove incantevoli ossessioni.
La sua attenzione si era spostata definitivamente dai cadaveri ai viventi, provava una passione sempre più forte per il sangue, una deviazione latente che era esplosa nella relazione con il dottor Aquesolo con il quale aveva prelevato organi da donatori ufficialmente deceduti… “Clinicamente morti”, come dicevano, un termine ambiguo giacché l’espianto si pratica su un vivo quando il cuore batte, il sangue circola, il corpo è roseo e tiepido; basta dichiarare la “morte cerebrale”, sebbene un tracciato piatto non significhi l’assenza d’attività mentale. Le funzioni del cervello conosciute costituiscono sono solo il 10% e non si può dichiarare “cessata” una funzione che non si conosce. Una ricerca giapponese aveva dimostrato che i neurochirurghi erano riusciti a salvare, 14 pazienti su 20 con ematoma subdurale acuto e 6 vittime su 12 d’ischemia dovuta ad arresto cardiaco. La frettolosa dichiarazione di morte cerebrale aveva sapore d’omicidio ma quello degli organi era un gran mercato che muoveva enormi somme di denaro, e molti pazienti che potevano essere salvati o risvegliati dal coma, venivano dichiarati cadaveri anzitempo. Lei e Aquesolo erano passati da estrarre parti del corpo da pazienti praticamente deceduti, a vittime di banali incidenti che si sarebbero potuti salvare. Avevano finito per assassinare indiscriminatamente, con la differenza che il dottore sentiva un rimorso insopportabile mentre lei non ne provava alcuno, anzi… la signora non sedava i donatori, consapevole che da qualche parte di ciò che restava del loro cervello, dovevano sentire dolore. Ultimamente la sofferenza altrui la soddisfaceva quasi quanto uccidere. Aveva sognato con Manuel di bagnarsi nel suo sangue, aveva avuto la certezza che lui non desiderasse altro… ma le cose non erano andate per il verso giusto e il succube ora la rifiutava. Non importa. Considerò, avvitando la lama sulla sega oscillante. Volente o nolente, il mio “amato” è sul tavolo operatorio pronto per l’espianto.
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