Il campo è cintato d'una rete di filo spinato
il suolo brullo come un tavolato di tufo,
gli autocarri procedono grevi a pochi passi
come bovini accecati, i passanti s'incurvano
pur di passare inosservati, ognuno è solo.
Forse è stato il vento d'aprile a strappare
il seme dal pergolato, e a conficcarlo
in questo luogo dimenticato, forse ho peccato
di superbia in un'altra vita e ora ne pago
il prezzo con l'onta di essere qui confinata.
La mia bellezza è sbocciata alle prime gocce
di pioggia di fine estate - fuori tempo, non solo
fuori luogo - mentre stupende compagne a frotte
fiorivano di pari bellezza poco lontano, nei parchi
e nei sottotetti, inebriando gli amanti di ardenti colori
e acuti profumi. Io quaggiù, come loro mi aprivo
nuda al sole, spalancando i miei petali vellutati,
scoprendo il mio cuore più segreto e sensuale.
La bellezza - narra un poeta - è invereconda,
quand'è pura, poiché nulla in sé ha da celare.
Seducevo le api, e mi lasciavo da loro lambire
quasi senza provare piacere, adoravo invece cantare
modulando la brezza tra le foglie e le spine.
Sapevo, intuivo che il mio rosso cupo nel desolato
terreno abbruciato era come una macchia di sangue
che essiccava al sole, ma non avrei voluto avvizzire
così sola, come uno stelo reciso lasciato morire
davanti a una lapide nel camposanto, avrei voluto
appartenere, e prodigare la mia linfa e ogni respiro
del mio rado fogliame smeraldo, all'ineffabile orgoglio
di essere una rosa.
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