C’era una volta un eremita, che non conosceva la solitudine.
Egli era giovane, ma le sue mani avevano vissuto più di lui, i suoi occhi avevano visto nel passato e nel futuro, e la sua mente aveva viaggiato in lungo e in largo. Da quella grotta, aveva visto paesi lontani, nuotato nei mari più caldi, toccato il cielo oltre la termosfera e scavato nella bruna terra fino al nadir.
Il giorno in cui aveva deciso di abbandonare il contratto sociale, considerandolo un contratto plurilaterale senza il consenso delle parti, cioè qualcosa di estremamente contraddittorio, si era sentito liberato da una morsa dolorosa e pungente conficcata nella sua sensibilità, nel lato più tenero della sua corporeità metafisica.
Il mondo era altro, pensava, non erano le persone, le case, le strade, i barboncini con quegli stupidi collari rosa, le macchine intasate nel traffico dell’ora di punta, i litigi in piazza, l’oscuro mondo della burocrazia istituzionale, ma altro. Il mondo era altrove.
Così l’eremita fece i bagagli e se ne andò, senza salutare, senza dire nulla, senza voltarsi mai indietro.
La natura era così accogliente, così silenziosa, tutto intorno a lui aveva ripreso colore e vitalità, quei toni accesi che nel mondo da cui proveniva erano resi cupi dall’angoscia e dal dolore.
L’eremita era felice nel suo mondo, quello vero, in cui i lupi erano una compagnia rassicurante, in cui la musica della natura vibrava tra gli aghi di pino e nelle trame sottili delle tele di ragno, in cui l’aria sapeva di muschio e di terra bagnata.
Imparò presto a sopravvivere, anzi a vivere in quel paradiso, che divenne la sua dimora, e si innamorò presto di quei sentieri che sembravano strade, di quegli alberi che sembravano uomini, di quelle formiche che arrampicandosi aggrappate alla sua pelle sembravano il tocco delicato di una donna, di quelle vibrazioni che sembravano parole gentili.
L’eremita presto dimenticò il linguaggio, dimenticò il mondo da cui era venuto, tanto da sembrargli solo un nebbioso ricordo di un sogno che aveva fatto molto tempo addietro, o forse un’allucinazione dovuta alla febbre alta. Era come se invece fosse stato partorito da una roccia di quei boschi e fosse stato nutrito al seno di una cerbiatta, come se la sua essenza umana fosse stata solo una strana ed inspiegabile incidentalità genetica.
Fu quello il momento il cui lei arrivò.
In una fredda notte, durante un temporale, lei entrò nella sua grotta per cercare un riparo dalle intemperie.
L’eremita si spaventò, non capiva, non ricordava, non voleva ricordare, ma le fattezze di quella donna lo riportarono ben presto alla consapevolezza di essere un fuggitivo, un esiliato, un uomo solo. Fu lei a fargli capire cosa fosse la solitudine.
La donna lo vide e urlò, non si aspettava di trovare un suo simile in quel luogo sperduto, proprio quel luogo che aveva raggiunto nello stesso tentativo dell’eremita di fuggire dalla crudeltà e dall’ingratitudine del contratto sociale.
Quando lui si avvicinò a lei, illuminato per una frazione di secondo dalla luce di un fulmine, quando quel lampo spezzò il buio e scoprì il suo sguardo, lei, negli occhi dell’eremita, riconobbe sé stessa, e non ebbe più alcun timore.
Passarono giorni, mesi insieme, condividendo il cibo e l’acqua, dapprima comunicando solo attraverso lo sguardo, poi imparando nuovamente il linguaggio, come avessero aperto un libro antico e polveroso sepolto nel bosco da centinaia di anni.
L’eremita non era più un eremita, ora aveva lei, e si ricordò quale fosse il suo nome, che aveva dimenticato da molto tempo. Si chiamava Lorenzo.
Lorenzo era felice insieme a lei, ci aveva messo molto tempo ad abituarsi alla sua presenza in quel mondo di solitaria perfezione, ma credeva valesse la pena condividerlo, lasciando che divenisse solamente perfezione.
Una notte lei gli si avvicinò, come spesso faceva, per condividere con lui il calore della grotta, ma qualcosa lo allarmò. Gli occhi di lei desideravano qualcos’altro, ma lui non capiva cosa, non lo capiva e per la prima volta si sentì spaesato. Non lo capì finche lei non gli conficcò con violenza una pietra di selce appuntita nel petto, a pochi centimetri dal cuore.
Gli occhi di Lorenzo, sbarrati dall’incredulità, dallo sgomento e dal dolore, desiderarono di tornare in quel momento gli occhi dell’eremita, ma non potevano più esserlo.
Stava soffrendo, stava morendo, colpito dalla sola persona nell’universo di cui si fosse fidato e con cui avesse condiviso intimamente il proprio mondo tanto agognato e tanto cercato. Stava morendo senza capire, i suoi occhi si stavano chiudendo, e non sapeva perché.
Poi, un attimo prima di morire, Lorenzo capì.
Lei lo amava, come lui aveva amato lei, ma lei desiderava quel mondo solitario più di quanto desiderasse lui, e decise di averlo tutto per sé.
Lorenzo morì, capendo senza comprendere, con il cuore spezzato dalla selce, dalla solitudine e da lei. Morì, lasciando che lei prendesse il suo posto, lasciandole in dono quel mondo di solitaria perfezione.
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