Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Il paesaggio - Ant Sacco

giovedì 3 aprile 2014

Il paesaggio - Ant Sacco

Ne aveva percorse troppe, di strade.

Su e giù per la penisola a presentare prodotti.

Aveva scelto quel lavoro per non stare seduto dietro a una scrivania, lui che odiava l’immobilità. Però si era trovato lo stesso seduto, anche se dietro a un volante. I chilometri che sfrecciavano sotto i pneumatici erano un moto illusorio. I suoi unici movimenti erano quelli dei piedi sui pedali, e i piccoli gesti delle braccia: volante, cambio, finestrino, interruttori e leve di tergicristalli, fari, frecce.

Un lavoro sedentario come un altro, insomma; e anche se il paesaggio intorno cambiava, da anni non ci faceva più caso. Partire, viaggiare, fermarsi dai clienti era solo un modo per poter tornare. A casa. Dove di nuovo si metteva seduto. Una lattina di birra in mano, i piedi sul tavolino davanti alla poltrona, il telecomando accanto, la TV accesa. Poi, col tempo, più facilmente spenta.

Anche la TV era infatti un moto illusorio, una compagnia inesistente. Immagini finte da mondi irreali, parole che si alzavano nell’aria come la polvere quando si batte un tappeto. Moleste, dunque. E altrettanto inevitabili. Finché non aveva deciso di spegnerla. E poi di non accenderla più. Restava seduto guardando i suoi piedi sul tavolino e pensava che erano fatti per camminare, non per premere pedali. Poi, la mattina dopo, saliva in macchina e partiva.

Nei lunghi percorsi silenziosi – ormai teneva spenta anche la radio – cercava di riempire il tempo con ricordi e progetti. Ma nella sua testa solo piani di lavoro. Rivedeva il cliente tale o tal’altro e riudiva cosa si erano detti, preparava le parole con cui presentarsi al prossimo, studiava il tragitto a minor rischio di traffico per il ritorno. Non riusciva a pensare ad altro. Il suo orizzonte si era ridotto alla striscia di asfalto nero che correva sotto di lui, e alla lattina di birra bevuta tenendo i piedi appoggiati sul tavolino. Una striscia di asfalto nero dove lui, come un treno su un’unica rotaia, era costretto ad andare. Costretto. Soltanto lì.

Un giorno un raggio di sole lo sorprese nonostante gli occhiali scuri, e lui si stupì di vedere qualcosa ai lati della strada. C’erano alberi, in quel punto. Alberi e prati. Era in collina. Provò un fortissimo desiderio di fermarsi e scendere per calpestare l’erba. Fortissimo, ma non abbastanza per frenare. Proseguì. E dopo neanche un chilometro c’era di nuovo soltanto la strada.

Però adesso aveva un ricordo, uno diverso. E fu questo ad accompagnarlo per tutta la giornata. Si chiedeva se, ripassando da lì, il miracolo si sarebbe ripetuto. Forse, se solo avesse saputo dov’era “lì”…

La sera dalla poltrona interrogò la schiuma della birra uscita dalla lattina mentre l’apriva, come una zingara scruta i fondi del caffè. Decise di leggervi che la prossima volta si sarebbe fermato, che non sarebbe sfuggito alla magia.

Trascorsero però molti giorni senza che il paesaggio gli si mostrasse di nuovo, tanto che cominciò a nutrire dei dubbi: forse era stato un sogno, soltanto un sogno.

Fu in un pomeriggio piovoso, quando la luce iniziava a macchiarsi di buio, che successe ancora. Agili e inaspettati alla sua destra alti cipressi fiancheggiavano la strada, in quel punto senza curve. Bellissimi. Il rettilineo in quel momento era deserto. Accelerò. Senza staccare gli occhi da quelli che adesso gli parevano angeli vestiti di verde accelerò ancora. Ancora. Ancora e ancora.

Con uno schianto l’automobile abbracciò il tronco robusto dell’albero più alto. Il suo corpo senza vita si accasciò sul volante. Intorno il lieve ticchettio della pioggia sui rami scandiva il tempo. Il clacson prese a suonare. Un rumore sordo, molesto. E altrettanto inevitabile.

Link utili:

Nessun commento:

Posta un commento

Ti piace questa opera? Lascia il tuo commento all'autore!