A mezzogiorno in punto, di un sabato qualunque, uno dei vari organi ammucchiati nella mia cassa toracica fece “crack”. Nessun dolore. Solo un improvviso torpore a coprirmi le spalle come una calda coperta di lana e ad abbracciarmi sul divano dal quale non mi sarei alzato mai più.
“Che cazzo di sonno …” furono le mie ultime parole.
Fuori dalle finestre c’era un Febbraio stupido, troppo caldo per essere vero, che pisciava la sua pioggerellina stitica, buona solo per dar fastidio ai battistrada delle auto che arrancavano in salita.
Un paio di passerotti, rifugiati sotto il cornicione, cinguettarono placidi in attesa che il tempo migliorasse. Questo fu l’ultimo suono che riuscii a sentire.
Mi sciolsi completamente nel buio perdendomi e, per un istante, svanii nel nulla.
Dopo pochi momenti una fessura di luce mi riportò in salotto. Non più sul divano, ma davanti ad esso e al mio corpo senza vita. Galleggiavo leggero ad un paio di metri dal pavimento e mi potevo vedere dormire un sonno apparentemente normale, ma definitivo.
Mi soffermai per qualche minuto sulla mia sciatteria e mi sorpresi a non riconoscermi così trasandato, sovrappeso e sgradevole alla vista. Fatta l’amara considerazione, mi diedi l’addio. Una forza potente e misteriosa mi trascinò con dolcezza lontano, verso una luce, mano a mano più intensa, e verso un suono scrosciante e famigliare. La porta verso l’aldilà, nel mio caso, fu lo sciacquone del water di casa.
Il mio spirito si mescolò tra i flutti turbolenti in caduta libera e percorse rapido il precipizio dei sette piani del mio palazzo, per poi affluire, con un tuffo buio e silenzioso, nel torrente fognario del quartiere.
Cosa stava accadendo alla mia anima? Perché navigava in un nauseabondo liquame scuro, tra rifiuti di ogni genere e giganteschi topi di fogna? Era questa dunque l’Eternità?
Nel buio dei canali sotterranei, non avevo altro che la coscienza di me. Non sentivo odori, sapori, rumori, caldo o freddo, navigavo in un Ade suburbano senza capire se viaggiavo verso una qualche destinazione.
D’un tratto la corrente accelerò, a causa della lieve pendenza del fondale, e mi ritrovai a sfrecciare per tubature sempre più ripide, sempre più strette, sempre più profonde. Tubature vive, elastiche, infinitamente lunghe e ramificate.
La pressione dei fluidi, dentro ai quali scorrevo, si fece sempre più imponente ed il mio spirito, completamente comprimibile, cominciò a compattarsi fino a diventare centotrenta volte più piccolo di un millimetro. La corrente si fece pulsata ed io presi ad avanzare a sbalzi, assieme ai miei simili.
Io e milioni di altri globuli rossi, carichi di emoglobina mista a ricordi di vite ormai estinte, scorrevamo.
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